In un tranquillo pomeriggio primaverile,

mi riavvicino alla scatola delle fotografie per cercare di capire se una foto vera riporterà realmente coerenza ai ricordi. Il divano nero non è accogliente come al solito mentre guardo quella scatola bianca, liscia, certamente difficile da aprire, la giro, la guardo da sotto, ai lati; le cuciture del cartone sono precise e molto curate, la mano che scorre su tutta la superfice le sente come ferite antiche, cicatrici mai rimarginate; cerco di accomodarmi meglio fra i cuscini di velluto, ma cresce il disagio. Io e la scatola in attesa e un po’ ostili. La apro a fatica mentre auspico un viaggio ludico nel passato, ma capisco dalla prima fotografia che non lo sarà; mi assale una sensazione conosciuta, una sorta di frenesia che arriva se faccio qualche cosa controvoglia, poi cade il coperchio e il rumore di altro tempo mi stupisce, non solo e semplice passato, ma tempo andato via, per sempre – stop. Continuo a muovere le foto con disordine perché mi sembra di non capire; le dita scavano fra le foto, le spostano, le uniscono, le separano, passano i visi e i luoghi della mia vita, oggi innaturali come se fossero set allestiti solo per essere fotografati, una sorta di calendario finto, fermo; adesso è chiaro, ho scelto una scatola così difficile da aprire, proprio per aprirla il meno possibile. Tra tutte le foto così intime, ma adesso così reali, così evocative, così mie, non riesco a scegliere dove e se fermarmi. Tutto  si mescola ed emerge un fiume unico di ricordi, la mia vita che non è ancorabile a singoli eventi. Capisco subito quanto vero sia che l’esperienza non si accumula. Quelle foto rappresentano anche amori sbagliati, viaggi errati, momenti orrendi; tutte cose che continuo a rifare.  Quindi  i ricordi, mondati dalle fantasticherie, sono il cuore vero dell’ intimità, il punto di partenza reale dal quale cerco di sfuggire solo per continuare a sognare?

La foto di Giovanni e di colpo mi viene da pensare alla luce accecante dei pomeriggi carpigiani, senza aria, io sono nato lì in quel paese che si culla fra nebbia e afa, senza vie di mezzo, come la volontà dei suoi abitanti. Gente di ferro, poco sensibile , ma con le braccia capaci di una stretta che sa di terra, di sicurezza, di certezze. Mia madre alta e pallida, occhi cerulei e poco profondi, grande lavoratrice.  Mi lasciava tutti i pomeriggi dalla zia dell’edicola dopo la fine delle scuole. Io le facevo compagnia, lei mi badava, entrambi abbiamo letto tanto, in silenzio. Mio padre, finite o no le scuole era sempre molto impegnato, dopo pranzo il bar e poi il bocciodromo, fino a sera, poi la cena e di nuovo il bocciodromo fino a tardi, il che lo costringeva a letto il mattino seguente e così via.

Un uomo bello e sfuggente, incapace di cattiverie, con un’intelligenza pacata e bloccata dalla sua idea di saggezza. Aveva capelli neri e folti che ho sempre sognato di ereditare, ho avuto solo i suoi occhi verdi. Era spesso distante dalla realtà da quando, partigiano, aveva visto morire il fratello Francesco al suo posto; erano appostati sull’argine del fiume Tresinaro, hanno sentito degli spari. Qualcuno doveva controllare da dove venivano i tedeschi e alzarsi – mio padre ha esitato, suo fratello no, colpito, ucciso, morto banalmente sul colpo, tutti gli altri in fuga tra i campi di mais alto e verde, per tutti un riparo, per Francesco solo un cippo grigio a futura memoria sull’argine, con rose di plastica rosa molto scolorite, un tempo forse rosse come l’ardore che muoveva il mondo. Li ricordo perfettamente perché ci passavo con mio padre; lui ci passa spesso e preferibilmente da solo quindi lo so, anche se tace, che quel peso è rimasto sulle nostre vite come il quadro di zio Francesco appeso nella saletta, sopra i divani verdi di velluto troppo freddi o troppo caldi a seconda della stagione. Il fuori tempo della vita, tic tac, silenzio, tic tac……..

Lascia un commento