Ricordo

Carpi, 30 luglio 1978
Marco giovane e il suo cane beige mi cadono in grembo. Quelle sere calde in piazza li cercavo e solo quando arrivavate si calmava la frenesia.
Riprendevo a sorridere, a parlare scherzoso a voce alta per farmi sentire da lui, del tutto disinteressato al resto. Nove volte su dieci nemmeno ci salutavamo, ma quell’unica volta valeva per le altre mille volte.
Verso fine luglio.
Sul ponte di barche, immaginifico momento della tranquilla strada di pianura, l’argine del fiume Secchia ti inghiotte e il mister college prototipo blu e argento scende verso l’acqua, passa sul rumore di assi di legno che  sono lì da cent’anni; il ponte si alza con  la piena e si abbassa con le secche e si lascia percorrere con avventurosa facilità; proprio lì avrei capito che bagnarsi due volte nello stesso fiume è pericoloso se abbatti le difese. In questo luogo famoso a Carpi ci si danno appuntamenti, si viene se si vuole impressionare qualcuno che poi racconterà quel brivido, quei profumi giovanili e irripetibili. Ancora oggi sento il rumore della tua vespa lenta dietro, quel suo borbottio era in realtà il battito del mio polso, l’orecchio teso per valutare la reale distanza fra noi.
Poi la tua voce si avvicina alla mia bocca, la mia schiena appoggiata al parapetto, quella luce piccola che segnala il ponte e regala ombra a tutto il resto; atmosfera per amanti possibili,  segreti, forse plausibili; se porti qualcuno al ponte delle barche di sera e non lo baci  non potrà funzionare né ora né mai.  Con Marco andò proprio così.
Abbiamo spento i motori al buio, alzato i cavalletti e respirato a fondo quel silenzio assoluto nel quale si sentivano anche i pensieri, poi grilli e rane sono intervenuti a portare sollievo al silenzio mentre l’acqua muta e nera scorre.
Appoggiati al parapetto vicini a guardare il buio, a cercare il luccichio della sigaretta nel fiume, in quel silenzio, Marco, pensavamo all’amore “scorrisposto”, che la colpa è di nessuno, ma si sta male sempre e quindi meglio senza amore che fa meno male.
Non posso girare la testa perché sei troppo lì, troppo vicino, sento la peluria del tuo braccio fregarsi con la mia quando porti la sigaretta alla bocca; non sento il tuo odore perché sei sottovento e quindi è meraviglioso, la mente lavora meglio della vita vera. Stop.
Sigaretta finita e cambio di posizioni, io rivolto al fiume e tu al ponte, adesso vedo meglio il tuo profilo, le tue labbra socchiuse in parole divertenti e prolungate nella notte che ascolto divertito, controllo i tuoi pantaloni corti, il ginocchio ossuto e forte, i tuoi piedi nel sandalo di corda, ricordo di avere amato quei peli sul collo del tuo piede; questi dettagli ritornano non appena ti penso, sono i dettagli allora che ti tengono attaccato al passato, così come la morte di un tuo caro ti fa sentire vecchio di colpo, irrimediabilmente, per sempre; qui non si torna indietro, si resta spiaccicati contro il muro della memoria che ti svuota di senso e di emotività, restano i fatti, gelidi, crudi, molto invernali, ma adesso Marco è estate, la calda estate del 1972.
Come avrei voluto che tu parlassi direttamente nella bocca per respirare il tuo alito, avrei voluto appoggiare il mio corpo al tuo, magro, slanciato, con quel ventre secco e forte; i tuoi capelli un po’ lunghi dietro e molto mossi mi fanno ripensare alle mode passate e alla tua strana bellezza che ho sempre amato; quando si riescono ad amare i difetti di una persona lo si ama per davvero e si è veramente liberi dal vincolo dell’amore corrisposto a tutti i costi; si può amare comunque allora.
Arriva un’automobile, passa il ponte, fa tremare tutto, il guidatore ci guarda e passa; altra sigaretta, altri pensieri, altro momento
“sediamoci nel barcone dice Marco”
“no ho paura dell’acqua scura dico io e di noi, penso……”
“ci sono io dice lui, non avere paura….”
Mi fido, scendo e mi siedo nel barcone, lui di fianco, vicino, posso vedere la peluria che esce dal pantaloncino sul ventre piatto che respirando si alza e si abbassa  calmo, sereno, rilassato; dalla manica corta escono i peli delle ascelle e di colpo penso che Marco sia fatto di soli peli, troppi peli, sarà forse un buon amico, con tutti quei peli!
Io non ho tutti quei peli e smetto di ascoltarlo di colpo, penso ai peli del mondo e alla fatica delle mie amiche a tenerli sotto controllo, che guerra quotidiana, quindicinale, mensile; alcune sostengono che i peli siano peggio delle mestruazioni.
Adesso sento freddo alla schiena, le parole di Marco non mi scaldano più come prima, vorrei alzarmi e andare via, ma resto lì e aspetto. Aspettavo già da piccolo e da adolescente continuo, penso sia tardi, ma aspettiamo ancora, adesso credo stia parlando del comunismo o del fascismo; la noia mi impedisce di carpire le sottili differenze.
Lui è ingenuo, lo incalzo e quindi mi alzo e faccio per andare via, lui mi blocca il braccio, fa leva sul mio corpo per alzarsi e respiro di colpo la stessa sua aria. Messo alle strette ha agito, costretto si è fatto sotto e mi ha riempito la bocca con l’alito pieno di fumo e di angoscia, di paura e di sospetto, di dolore e di passione; quanta saliva in quell’approccio, troppa e inutile; quanti minuti mescolati di colpo con la voglia di darsi a tutti i costi, magari senza coinvolgimento.
Marco ha gli occhi chiusi e io lo guardo, le sue ciglia nere luccicano, le sue orecchie allertate ascoltano, arrossate, sento il loro calore, poi le sue braccia mi stringono, sento di nuovo il calore della serata, del suo corpo; una sua mano mi accarezza la schiena delicatamente e penso che è terribile non amare chi ti sta baciando; da piccolo scrissi che amare significa fiorire e brillare di luce propria, essere amati significa ingrigire e forse anche morire, ero enfatico come tutti i poeti imberbi, ma sicuramente avevo capito.

Lascia un commento