Cari miei ragazzi, ho voglia di scrivervi anche questo.
Io sono stato messo in collegio a 5 anni e abbandonato lì. Lì nel collegio venivo picchiato da suore sadiche, punito quando facevo la pipì a letto facendomi andare a scuola con le mutande pisciate in testa, prima di ciò ho anche potuto assistere a violenze domestiche quotidiane e massacri fisici che ancora ricordo. Poi sono stato portato in Germania dove abitavamo in 5 in un monolocale.
La notte a quell’età venivo abbandonato perché gli altri andavano a bere al pub e io come un cane sul balcone gridavo mamma ogni volta che vedevo dietro l’angolo aprirsi la porta della birreria nella speranza che mi sentissero. Poi prendevo le botte perché avevo creato imbarazzo con il vicinato.
A scuola prendevo botte, dai fratelli prendevo botte; ad esempio, per insegnarmi la tabellina venivo bloccato tra le ginocchia e prendevo schiaffoni ogni volta che non rispondevo giusto e così via;
poi sono finito a fare, dagli 8 agli 11 circa, il lavoratore “cinese” per mia mamma. Lavorava a cottimo davanti ad una macchina da cucire e nel mentre i bambini giocavano dopo scuola io stavo davanti a quella macchina da cucire a fare le rifiniture, per dimezzare i tempi di lavoro, nel mentre la maniaco depressiva alcolizzata mi sputava in faccia, mi insultava e picchiava, regolarmente.
Riuscivo a mettere da parte qualche risparmio e lei me lo rubava. Poi arrivava il Natale e niente regali con la giustificazione che ero stato CATTIVO. Il contorno botte non è mancato, mai. Ho fatto la cacca nelle mutande fino agli 11 anni finché, per curarmi, la mamma ha messo tutte le mutande in una vasca da bagno e me le ha fatte pulire a mani nude.
Poi le è venuto in mente di aprirsi un ristorante; tra un uomo e un altro che mi faceva da padre di turno, ma io ero l’elemento di disturbo per il loro amore passionale, in tutto ciò il sesso era all’ordine del giorno, tra fumetti e dildo che si trovavano in giro, con l’autorizzazione materna al mio pestaggio per dare una mano, un impronta maschile alla mia educazione.
Prima di questo ristorante venivo lasciato solo in Germania per giorni e giorni perché lei andava in Italia a fare le ferie da sola, tanto come mettermi qualcosa in tavola e come pulire me lo aveva ben insegnato, quindi al ristorante inizia la mia precoce esperienza di abile lavoratore cameriere tuttofare.
Gli altri giocavano io lavoravo fino alle 23.30 per alzarmi la mattina per andare a scuola con il bus delle 5.30 e tornare a casa per pulire il ristorante. Come dimenticare gli ubriaconi tedeschi, insulti e lamentele, l’acro odore di fumo che ispiravo, le botte all’ordine del giorno per fare sfogare la frustrata maniaco depressiva alcolizzata che passava notti post chiusura a giocare a poker o scopare; ricordo bene una volta che tornai a casa da scuola un pomeriggio e, con quel suono da sirena incantatrice vittima, mi indusse a pulire dall’orinatoio il vomito lasciato dall’ennesimo ubriacone di turno a mani nude.
È così che si trascorre l’infanzia. Lo sanno tutti. Lavorare, pulire, essere picchiato e sentirsi dire di essere una merda. Non mi meraviglia oggi il fatto che arrivato ai 13/14 anni della mia gloriosa vita in cui ero anche un bravo scolaro, ho ingoiato le pasticche del padre di turno con problemi cardiaci a manciate per morire, e che purtroppo mi venne in mente di non fare incolpare mamma o fratello nel paese della mia morte e confessai il gesto. E non fu sperma quello che ingoiai, ma il tubo del lavaggio gastrico. Quello dopo, tra le ferite della vita e l’amaro. Le prime parole di mamma furono: “ecco lo ha fatto apposta”, mentre io sulla scala seduto quasi morto con il cuore che schizzava come un pazzo, prega come vittima lei, vittima del mio gesto, i clienti di chiamare un ambulanza. Lavanda gastrica, ricovero, fratellino che arriva dall’Italia e che trovo al mio risveglio al capezzale che mi dice che sono perfino finito sul giornale e che vergogna. Infatti anche il catechista per la cresima mi sgridò violentemente per il gesto compiuto come una colpa mortale e ci volle tutta la mia abilità per convincerlo a farmi fare cresimare.
I bambini dimenticano in fretta. La vita, se vita si poteva chiamare, è andata avanti così qualche anno. Per fortuna che c’era Sabine Gerstacker che mi faceva dipingere, quando potevo mi portava con loro, grandi e colti in giro a mostre, in musei e mi ascoltava. Chiamate quotidiane dalla cabina telefonica che ascoltava. È dopo quello di mio fratello, quello che ho da un quarto di secolo, non il congenito, l’unico numero che ricordo a memoria. Da sempre. I numeri della salvezza.
Poi chiuse il ristorante, ci trasferimmo nelle adiacenze e per me, una bellissima stanzetta in una cantina con le mura di cemento armato grigie senza finestra, ma con un neon, potei scegliere il neon per avere luce bianca, mamma nella stanza da letto e Davide il figlio prediletto in quella a pianoterra. Io in cantina. Botte, pulizie, scuola. La vita procedeva così.
Avrò avuto 15 anni circa quando mamma scappa indebitata dalla Germania in Italia alla ricerca di un uomini da cui piazzarsi a mezzo agenzie matrimoniali. Io resto solo là con mio fratello che mi concede, durante la convivenza la sua stanza, emergo dalla cantina, mentre lui al piano superiore con la sua ragazza, l’austriaca amica di famiglia. Io facevo da donna di servizio, cuoca, e punita con botte se c’era polvere in giro, che veniva controllata in stile militare. Poi però dovevo togliermi dal cazzo il pomeriggio del fine settimana se dovevano stare soli e scopare o mangiarsi la torta della domenica pomeriggio a cui spesso non avevo diritto. Sempre botte, si intende.
Nel frattempo che volete, l’avevo una casa: la scuola, la pittura, dipingevo. A scuola recitavo. E se non ero a casa ero in salvo. Ero almeno benvoluto. Dal mondo. Quando me ne tornai in Italia fui lasciato sul piazzale della stazione di Rosenheim a prendere il treno con 10, 15 bagagli nei quali iniziai a portarmi dietro la mia misera vita. Me li trascinai al binario e mi aiutarono immigrati a caricarli. Il bene più caro l’ho sempre avuto da estranei.
Correva il 1984 o 1985 o 1986. Si arrabbiò molto la coppietta perché con la mia partenza andava in fumo anche l’assegno di assistenza, che all’epoca non era una cifra irrisoria, anzi…. Ma in compenso mi fu poi rinfacciato che tra i miei libri restituiti alla scuola UNO manca e che lo dovettero ripagare.
Finii a Bologna con il secondo marito di mamma, a fare senza una terza media, il lavoratore al ristorante su a Monghidoro che si fece aprire dal marito che poi tenta di strangolarla e violentarla, come da buon contadino gli avevano consigliato, le tagliava i freni della macchina e mi scaraventava come un sacco di patate mentre tentavo di difendere mamma.
Poi mi manda da mia sorella, che chiarisce subito: non puoi oziare, il papà tornato ricco non ha più soldi perché si è bruciato tutto, anche finanziando lei e il fratello, e ora lavori. Il papà che raramente avevo avuto e visto, mi porta con se un paio di giorni sul litorale adriatico, si ferma ad ogni albergo e ad ogni receptionist chiede: “questo è un disperato che ha bisogno di lavorare, qualunque lavoro”. Nessuno fu disposto a darmelo, ma a mezzo di conoscenze lo trovò un posto e io fui piazzato. Ben duecentomila lire al mese in nero per 6 giorni di lavoro, e con due paia di pantaloni neri un paio di scarpe nere, qualche indumento intimo due camice bianche di terital ero pronto al servizio. Poi si decise se farmi fare l’accademia militare o la scuola alberghiera. Beh, tra volere fare lo stilista e il pittore e decidere se fare il cameriere o il soldato, dovetti scegliere il cameriere.
Ero omosessuale e spaventato dalla vita da tutta la vita. In hotel quella estate trovai la famiglia temporanea tra i servi come me, nelle cantine in cui venivamo alloggiati a dividere un bagno in non so quanti. Poi mi trovai un posto in cui abitare, a Teramo, con un vicino sposato con figlie che me le offriva o entrava in casa a fissarmi mentre facevo la doccia e ci provava a incularmi. Scappai da lì. Una dei colleghi dell’hotel mi offrì uno stallo temporaneo nei pressi di Teramo. Imperdonabile errore. L’estate dopo, ormai ero grande avevo almeno 17 anni quindi, dopo che mi feci la stagione estiva per sopravvivere all’inverno successivo, per pagarmi un convitto che per il primo anno mi fu finanziato con 60000 lire al mese dal terzo marito, questo danaroso, della mia cara pazza mamma, non trovai un posto dove poter andare a vivere.
In verità potevo svernare dal lunedì al venerdì in un tugurio. Me lo ricordo, sullo stesso piano di quello che mi si voleva fare, senza riscaldamento, con finestre dai vetri bucati e infissi del 1900, un water montato su un terrazzino con quattro mura di mattoni a vista, un rubinetto di acqua fredda, un fornello a gas. Mi nutrivo di latte con biscotti da mille lire e zucchero, ci facevo un pastone e mi mangiavo quello. Quando avevo soldi potevo andarmi a fare una doccia al diurno in piazza a Teramo. Ma persi anche il tugurio. Per questioni famigliari insomma finì d’essere di qualcun altro. Comunque qualche parente di domenica mi invitava ogni tanto a mangiare.
Raramente mi presentavo senza il vassoietto di pastarelle e per ripagare la cortesia di non essere solo e stare al caldo, facevo da dama di compagnia allo zio Nino mentre girava per i paesi a piazzare cantanti per le feste come impresario. Non sempre. Provavo vergogna. Il convitto non andava più bene. Non avevo un posto il fine settimana, con quei soldi raccattati lavorando come un mulo d’estate, poi pure prestati al famoso fratello e restituiti centellinati, mi trovò una stanza con studenti universitari un’amica di mia cugina prima che tornassi dalla Romagna per fare il terzo anno di scuola. Non avevo una lavatrice per cui la sorella che una volta alla settimana per il primo anno di scuola mi lavava gentilmente i panni, ma ricordandomi sempre che “mi toglieva la merda dalle mutande” quando presenziavo in casa sua come ospite, estremamente sgradito; ma anche lei non c’era più dopo l’ultima spinta che mi diede e caddi e si vantò che con una spinta “l’impapito l’ho so rivuddicato”. Poi il militare, anche quello, poi vivere in case una più squallida e lurida dell’altra con un titolo professionale raccattato a stento, sono riuscito ad andare avanti.
Trovai un posto come impiegato, dove tentati la mia fortuna abitando in provincia di Bologna in un altro tugurio in cui pagavo poco. Questo dopo avere ricevuto per grazia divina un posto da postino dal terzo marito di mammà che aveva pietà per me ma che quando litigava con lei, siccome facevo il jolly mi dava le zone più pericolose o faticose mentre quando invece l’amore tra loro andava mi faceva fare i condomini residenziali. Al passaggio tra postino e impiegato fui incoraggiato con magnifiche parole quali…. “dove volessi andare che non sapevo fare nulla e se credevo di fare qualcosa nella vita oltre il cameriere”.
Nessuno mi voleva, la ragazza con cui finsi di esser etero mi lasciò dopo averle confessato di essere omosessuale, e con la quale mi adoperai a comprare una casa che giustamente era sua. Altra famiglia in prestito fu quella. Quando non hai una famiglia tua ti infili nelle altre come un cuculo mette l’uovo nei nidi altrui.
Seguono altri anni di solitudine estrema, difficoltà economiche, abitazioni squallide tristi, ricerca d’amore in chiunque, mamma, fratello, sorella che mi perdonavano quando tornavo, purché mi mostrassi disponibile a servigi, quindi servizi e ubbidienza muta.
A circa 27 anni entro in alienazione. Mi alzo, mi lavo, lavoro, torno, spesa, cibo, sonno. Sonno, tantissimo sonno. Notti passate in solitudine. Come il resto della vita tranne qualche amicizia del momento idealizzata come famiglia o riferimento affettivo.
Tant’è che ho avuto rapporti sessuali con più gente di quanta ne abbia mai conosciuta in vita mia per colmare l’inesistenza di questa famiglia.
Conosco il mio vero fratello che si adopera a salvarmi da me stesso. E ora sono qui.
Ora, per essere sopravvissuto a tutto questo, che poi è una riduzione di un inferno inenarrabile, mi sono chiesto cosa mi ha fatto sopravvivere.
Intanto l’umanità che ho avuto e ricevuto. L’orgoglio. Una immensa quantità di orgoglio. Immensa. Determinazione. Resistenza. Coraggio. Curiosità.
Rialzate, continue infinite rialzate contro il mondo al quale non ero stato preparato se non per servirlo. Per farmi usare.
Oddio, quante volte mi ha accompagnato la voglia di morire, sempre e costante. Ma poi qualcosa mi impediva sempre di morire.
E se poi alla fine sarebbe andata bene? E il finale del libro della mia vita quale sarebbe stato? Tentavo di uccidermi senza mai riuscirvi. Quel maledetto orgoglio e quella stupida curiosità mi impedivano la riuscita di una morte. Di un riposo.
Ora ho 50, sono ancora qui che curo ferite, ogni tanto si riaprono cicatrici, vecchi traumi sono pronti per essere affrontati e curati. Sono stanco. Il mio corpo riesce ad elaborare così tante emozioni che quando sono troppe mi vengono i tic per scaricarle da qualche parte e in qualche modo.
E nel frattempo do una mano a qualcuno. Che è una cosa sana umana.
Voi l’orgoglio l’avete ma non lo tirate fuori.
E se poi mi morite?
Fine del mio racconto, per voi