Per Mario, come tutti gli anni anche quello sarebbe stato quel momento di profonda e intensa tristezza. Tutti i fantasmi dei natali passati tornavano puntualmente a bussare alla sua porta. La solitudine che accompagnava ogni istante della sua vita, lì, solo, abbandonato a se stesso, ad una vita che sin da piccolo lo aveva lasciato solo dimenticandosi di lui, in mezzo a tanta gente, si faceva sentire prepotente volendo accedere al suo es per penetrare nel suo io senza nemmeno voler attendere risposta. Ogni natale riaffiorava l’assenza della sua mamma, del suo papà, di chiunque, di una famiglia, di una casa sicura e calda, addobbata in cui si cantava come ci raccontano le favole. E si sa, le favole sono per lo più inventate. In quelle favole non si racconta che sia una mamma che un papà possono anche non essere interessati a te e non cercarti e non volerti e lasciarti solo anche quando sei bambino e per venti giorni la televisione ti bombarda di immagini di famiglie felici, alberi addobbati colmi di pacchetti per bambini sotto, gente buona e tanti sorrisi. Quelle favole non raccontano del freddo che bambini come Mario hanno vissuto mentre venivano lasciati soli a casa perché la mamma non voleva avere fastidi attorno quando andava a fare le vigilie o i pranzi di natale e questi bambini restavano lì soli a guardare il buio e il vuoto nelle strade sperando che di nascosto una slitta magica realmente ti portasse via. Per questo che ci si crede di più, anche quando si è grandi, specialmente quando si è grandi se si deve sopravvivere. E si soffre di più. In Mario si accendeva malinconicamente il lume della speranza che anche questo natale non sarebbe rimasto li, solo, fuori dalla porta della vita di una famiglia, senza un piatto, senza una sedia, senza un posto al quale era atteso da qualcuno. Come ogni anno Mario sopportava questo sentimento, in silenzio. Ma tanto forte era quel silenzio che celava dietro al suo consueto sorriso al mondo, che non glie lo si poteva non leggere in faccia. In fondo un uomo, specialmente se dolorante, non può che inventarsi un solo trucco per ingannare se stesso e gli altri per la vergogna della miseria che sente in se, e lì dove il sorriso non arrivava gli occhi parlavano raccontando una verità fatta di disperata solitudine. Disperata. Quella che ogni giorno lo teneva per mano, ma che a natale, in quei maledetti giorni svenduti come fossero l’apoteosi dell’amore famigliare e che solo le favole rendevano credibile, l’abbracciava stringendolo così forte fino a soffocarlo facendogli mancare il respiro opprimendo il petto di un peso che sentiva solo lui.
Era programmato che Mario avrebbe trascorso la vigilia solo, perché soli si combatte meglio la solitudine. Non hai nessuno a cui doverla nascondere e non devi neanche sorridere. Puoi stare lì e viverla tutta come meglio puoi. Rannicchiato, in silenzio, urlante, piangente, ma sei solo con te stesso e questo ti salva un po’. Poi a natale, un poco per affetto un poco per amicizia un poco per compassione Gilberto, l’amico di Mario gli avrebbe fatto compagnia. Una sorta di caritatevole atto di buon cuore per rendere un grappolo, di giorni difficile, meno aspro. Mario odiava questa invasione di Gilberto perché gli impediva di affrontare quel giorno nella sua miseria ma in realtà era grato tanto a quell’amico che lo strappava da un momento nel quale se da un lato voleva nascondersi dall’altro voleva scappare, ciononostante capiva le buone intenzioni di Gilberto e le tollerava nonostante una parte di lui volesse sprofondare in quella solitudine per riemergerne con un altro anno e un altro ricordo di un natale infelice sulle sue provate spalle. E quel giorno a quanto pare doveva essere così.
Che strana coppia questi Mario e Gilberto. Due soggetti tanto diversi l’uno dall’altro che non poteva esserci tanto di così diverso. Mario vittima di una vita famigliare in cui esisti perché sei stato registrato all’anagrafe e abbandonato a se stesso da sempre, Gilberto questo figlio unico idolatrato. L’uno piccolo magrolino e smilzo che sembrava gli scorresse la nitroglicerina nelle vene, pieno di rabbia per riuscire a stare in piedi e l’altro alto possente e forte che pareva la calma in persona e che appena addocchiava un divano o simile, lì si piazzava, a godersi il momento, in riposo, divertendosi a veder correre si, ma gli altri. Eppure anche due persone così diverse qualcosa in comune hanno, anche se non si sa cosa sia esattamente e questo li rende tali da amarsi. E perché poi è necessario sapere cosa abbiano in comune due persone? Se esiste qualcosa lo si sente, non serve descriverlo.
Mario abitava in questo appartamentino minuscolo, una stanzetta, una cucinetta, un bagno e ci scappava pure un ingressino. In uno di quei palazzi degli anni venti, con i soffitti alti, le scale ripide e una archiettura per poveri in cui il centimetro quadrato era ottimizzato al massimo come da buon regola del fascio. L’appartamentino tenuto a lustro in ogni angolo, arredato con mobili di fortuna, un ripiano di legno da cantina dell’Ikea nella cucina per riporre i piatti, la tv, le pentole, i bicchieri sempre da spolverare perché tutto a vista, un divanetto da due di vimini regalatogli e consumato da un lato perché solo era e solo viveva sempre seduto al solito posto, elettrodomestici in fila, una rete con un materasso sopra un armadio e una sedia in camera da letto, un ripiano per qualche libro che si trascinava dietro da una vita per convincersi che anche lui aveva un passato e una storia nel corridoio da 60 centimetri che divideva l’ingressino dalla camera da letto, un armadio raccolto in giro con specchiera nell’ingresso, di quelli di una volta dismessi da qualche erede di qualche vecchia defunta che l’aveva tenuto una vita intera, forse da quando si era sposata e il bagnetto fatto dal mimino necessario, era all’ultimo piano, che per raggiungerlo se non fosse per la rabbia che lo teneva in vita sto Mario mingherlino ci lasciavi il polmone visto che dell’ascensore nemmeno parlarne. Ma era il primo posto in cui forse aveva trovato un luogo in cui sentirsi in casa. Non si sentiva proprio a casa sua, quello no, ma come se in ogni posto in cui vivesse fosse in prestito o ospite sgradito, ma in casa si. Per la prima volta. C’era quella finestra che dava sul balconcino a cui mancava il vetro e ci aveva al suo posto un pezzo di plastica trasparente che si era promesso di aggiustare ma che per qualche ragione, come se non ne valesse la pena, per lui, non l’ha mai fatto. In fondo chi si sente di passaggio non ci tiene molto a lasciare dei segni all’ennesima volta in cui avrebbe dovuto cambiare tana. Ma per la prima volta lì aveva comprato anche degli elettrodomestici e anche nuovi restando completamente a secco. Un piccolo passo. Si sarebbe messo sulla schiena anche quelli al prossimo giro, nella prossima casa, nel prossimo luogo.
Se non fosse stato per quella solitudine che lo attanagliava, specialmente in quei giorni forse era un segno di avanzamento. Ma quei giorni, quei maledetti giorni ogni anno! Il natale!
Si avvicinava dunque il momento. Sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe dovuto fare gli onori di casa e mettere in tavola qualcosa di buono. Non poteva ringraziare del gesto Gilberto se non almeno inventandosi cuoco e cercare di preparare qualcosa che fosse buono. Come i cani adottati dal canile o salvati dall’abbandono per la strada Mario si sentiva la gratitudine per il gesto di Gilberto che avrebbe tentato di ricambiare in ogni modo possibile. Gilberto adorava mangiare e adorava ancora di più mangiare ciò che gli era stato cucinato. Gilberto dava gioia. Così, anche solo perché presente. In sua presenza chiunque sorride. E anche Mario in presenza di Gilberto sorrideva e non mimava. Era meccanico. Funzionava in questo modo. L’amicizia ha strane radici che viaggiano contorte in un terreno ignoto dal quale si nutre accedendo ad esso impavido e coraggioso.
Mario pensava a quel punto che le polpette gli piacevano, al sugo, per condirci le tagliatelle all’uovo, la torta rustica ripiena di spinaci, uovo, sodo, mozzarella, il purea di patate, quello fatto con le patate vere, il latte, il burro, tanto tanto tanto parmigiano grattugiato fresco, la noce moscata, una fetta di cotechino, le lenticchie, il pinzimonio come antipasto, il mascarpone come dolce, l’uva, il panettone, tanto pane fresco. E pensava a mettere insieme gli ingredienti. Come se dovesse mettere in piedi un piano per una battaglia. Per Mario preparare un simile menu sarebbe stata una impresa ma avrebbe fatto in modo di riuscirci, perché l’amore, l’affetto, forse la voglia di compagnia, forse la paura dello stare solo riesce a farti fare anche quello che non sai fare o che detesti fare.
A Gilberto di tutta questa storia del natale in realtà gli fregava poco, aveva i suoi affetti solidi da quando era nato, non erano quei giorni che cambiavano la sua vita, anzi, amava tanto il natale per tre motivi: era il periodo in cui mangiava di più e meglio accettando inviti a pranzi e cene da chiunque arrivassero e anche le merende, rimpilzandosi per un mese del meglio che l’arte culinaria casalinga sfornava, i pacchetti regalo che riceveva da un esercito di amici e non dimentichiamo le lucette e gli addobbi che facevano appunto tanto natale. Quello che a Gilberto non mancava era quel posto che qualcuno gli teneva per lui. Quel posto l’aveva e non lo avrebbe mai perduto. Per questo faceva fatica a capire Mario e il motivo della sua sofferenza ma capiva che c’era perché gli occhi non nascondevano quello che il sorriso tentava di celare. E quel periodo era inequivocabile.
Secondo me Gilberto pensava bene che se da una parte faceva compagnia a Mario, dall’altra gli avrebbe dato filo da torcere con il menu, diminuendo il tempo i minuti e secondi a nutrire la sua melanconia deviando le energie verso un obiettivo detestato: Cucinare, molto e cose complicate. Gilberto d’altronde era un sadico monello che con divertenti dispettucci amava fare impazzire gli amici. Chissà che risate a pensare al Mario che andava in panico per due piatti da mettere in tavola.
A rendere il tutto ancora più difficile a Mario ci aveva pensato Gilberto. Mentre Mario cercava di tenere sopra ad una fragile impalcatura la sua vita programmando ogni secondo, controllando che lo scandire dei movimenti non venisse in alcun mondo deconcentrato dal ritmo rassicurante imposto, Gilberto non poteva fare a meno che improvvisare ogni istante della sua vita, come solo le persone certe che sanno da dove vengono e dove appartengono possono fare. E così finisce che a quella tavola natalizia sarebbe stata invitata una terza persona, così, all’improvviso. “Senti viene a mangiare anche Alberta. È sola. Gli hanno cambiato i turni”. La telefonata finisce così. Senza diritto di replica. Per Mario, il tempo a sentire la malinconia diminuisce notevolmente. Nonostante Alberta, che conosceva poco, fosse una persona altrettanto diversa sia da Mario che da Gilberto, che considerava la marihuana un alternativa sana all’antidepressivo, il suo integralismo ecologico la facesse vivere in un’ ambiente nel quale Mario non avrebbe nemmeno toccato la porta della maniglia di casa, la sua preoccupazione sulla casa piccola, le stoviglie spaiate, il posto ridotto ad un tavolo da 90 centimetri per 90 centimetri comprato all’Ikea perché era il meno costoso, sul quale mangiare in tre in una cucina da 2 metri e mezzo per 2 e trenta lo aveva ridotto in uno stato di imbarazzo e di stress tale che francamente la malinconia per la solitudine famigliare e nella vita si era già a tre giorni dalla data prevista trasformata in isteria fulminante passando il tempo a maledire il natale più di quanto non avesse mai fatto, Gilberto e Alberta compresa per non essere con suo figlio mollato alla nonna al sud anziché a casa sua a mettere a dura prova la sua vita. D’altronde Gilberto era fatto così, ti buttava in mare e non stava nemmeno a chiedere se sapevi nuotare. Alberta anche lei era una persona con un suo percorso fatto di vita genitoriale violenta, un padre padrone, amori mai corrisposti, un figlio fatto per legarsi ad un uomo, una bellezza che non aiuta una donna a cavarsela meglio, un carattere duro e arido e idee alternative corrispondente ad un avanguardia più nord europea che latina aveva il suo bel da vivere. E il soggetto non rendeva l’organizzazione del pasto natalizio a Mario più semplice. Forse aveva paura che disgrazia su disgrazia il peso emotivo sarebbe aumentato fino a non riuscire a trattenerlo. Alberta non faceva ridere come Gilberto, Alberta faceva piangere e molto anche.
Peccato che in aggiunta poi, anziché essere colmato lo spazio affettivo nel giorno di natale Mario viene a sapere che non era il natale che si faceva insieme ma bensì la vigilia. Perché Alberta era alla vigilia che restava sola, non a natale. Così, detta così. Un giorno prima. Per caso. Con le polpette da cuocere, la casa povera, la spesa da completare, l’imbarazzo che aumentava e chiedersi pure se le posate bastavano. E nel mentre di Gilberto nessuna traccia perché tanto sarà in giro tra inviti e spese natalizie Mario lì ad esaurirsi tra ansia, spesa, ricette, dosi, modi di cottura e continue pulizie per nascondere la vergogna della propria solitudine trafficando isterico da mattina a sera. Tant’è che finalmente il mattino della vigilia Gilberto si fa vivo con Mario. Saranno state circa le dieci del mattino. Mario era in cucina a spinare del pesce per aggiungere qualcosa di tradizionale, complicandosi la vita, visto che in realtà le polpette non si sarebbero dovute mangiare alla vigilia. Risponde e viene a sapere: “ Senti è successa una cosa molto triste, l’amica di Alberta ha una figlia di 11 anni e doveva stare con il padre solo che lo stronzo ha mollato la figlia per andare con la fidanzata a sciare e viene a Bologna, che vogliamo lasciarle da sole? Vengono anche loro. Ciao”. Il primo cellulare Panasonic di Mario resta incollato all’orecchio. Non capiva bene se era uno scherzo. Non aveva nemmeno fatto in tempo a replicare. Non aveva nemmeno realizzato se la conversazione fosse intercorsa. L’unica cosa che gli faceva pensare di si era che il telefono era stato portato all’orecchio con le mani sporche di polpa di orata e la cronologia sul display. L’appuntamento era per le nove di sera. I pesci erano tre. La torta salata una. Le polpette… , il dolce.. il tavolo era sempre 90×90 e ora ci si doveva stare in 5. Le stoviglie erano quelle. E lo spiffero dal vetro mancante sostituito con il pezzo di plastica, i cinque piani a piedi, la povertà del mobilio, la casa piccola, l’ansia, l’ansia che aumentava in crescendo. Mario non aveva mai usato ansiolitici. Non sapeva che esistevano. Nemmeno la marihuana aveva mai fumato. E saltare dal quinto piano non era ancora nelle sue corde. Ma urlare si. Urlare contro la cornetta , impiastrando di orata il suo Panasonic pagato centomila lire, parolacce e bestemmie contro Gilberto che era in giro a divertirsi da giorni mentre Mario era solo a cercare di organizzare qualcosa che avrebbe dovuto essere una specie di pasto natalizio, si. Questo Mario lo sapeva fare. La nitroglicerina che scorreva nelle le sue vene era stata innescata. L’esplosione era in atto. Gli urli passarono così bene nelle fessure dell’infisso e la cornice imbarcata dal tempo e dalle intemperie che la strada, nonostante rumorosa e piena di bancarelle, mercatini e negozietti sentì, tutta la strada sentì. Come sentirono i dirimpettai del palazzo di fronte ad almeno 12 metri di distanza a linea d’aria, i passanti in strada nonostante il rumore assordante delle auto nelle tre corsie adiacenti al semaforo che ad ogni scattare del verde puntualmente strombazzavano con il clacson perché attendere che il poveraccio in prima fila partisse era chiedere troppo notte e giorno, come sentirono anche gli altri abitanti del palazzo di Mario e anche quelli del palazzo di fianco a quello di Mario. Finito lo sfogo il povero Mario fece il numero di Gilberto. Questo giustamente, nei negozi e nei locali non poteva sentire la suoneria del suo Ericsson. Alla ventesima chiamata risposte. Eccome se rispose. Senza nemmeno dare l’occasione al povero Mario di dire beo questo si senti dire: “senti cocco se per due spadellate devi stare triturarmi i coglioni dovresti vergognarti, la povera Antonia è sola e una bambina di 11 anni mollata dal padre con la madre son in arrivo. Ci vediamo alle nove come da accordi e non stracciarmi ancora i coglioni. Vergognati sei senza cuore!” Clic. Clic era l’ultima cosa che Mario sentì. Con i suoi 58 chili e i suoi 27 anni, si sedette sconfortato sul divanetto di vimini a due posti cedutogli da Gilberto che non sapeva dove buttarlo, al suo solito posto, ma non riusciva a piangere. Piangere era una cosa che non gli riusciva più da quando era un bambino piccolo. Aveva già versato tutte le lacrime a quanto pare o forse, visto che le lacrime non finiscono mai, non aveva il coraggio di piangere ancora una volta per paura di non riuscire a smettere mai. Si rimise in piedi, contò i soldi rimasti nel portafoglio, scese i cinque piani, trovò dal pescivendolo altre due orate, risalì sfinito i cinque piani a piedi e integrò anche quei due pesci al menu chiedendosi dove mai in quel buco con tre sedie disponibili cinque persone avrebbero mangiato, sempre che quello che stava cucinando fosse stato commestibile. Eppure Gilberto sapeva che quella casa era microscopica. Erano ormai le dodici, da li alle nove mancava poco e sarebbe dovuto riuscire a preparare tutto e pulire, ancora una volta, forse per la quarta, la casetta e con quel freddino e i vapori in atto, in panico senza avere capito quando dover bollire le patate perché pare dovessero essere calde per fare il purea e quando infilare, il pesce spinato farcito con erbe e fette di patate sottili e chiuso con fili di erba cipollina in forno proseguì. I suoi 58 chili per 173cm di altezza proseguirono automaticamente dimenticandosi che era la vigilia di natale. Completamente.
Arrivano le ore nove del 24 dicembre. Gli ospiti.
Mario impazzito con l’occhio scarno fuori dalle orbite riceve gli ospiti, i 4 re magi alla mangiatoia. Sorride. Dentro moriva dalla vergogna. La casa povera, le cose chissà se erano buone, il posto, la miseria. Ma sorride. Come sorride da una vita. Il sorriso stampato in fronte e sempre. Qualunque cosa accada. Lui sorride, Mario. Gilberto là, a guidare la carovana con l’affanno tipico di tutti quelli che per un motivo o l’altro hanno voluto salire fino a lassù. Ma non sono mai stati molti. Mai nessuno a cui appartenesse. Se non l’amico Gilberto. Era l’unico che quelle scale le faceva. Se ne lamentava ogni volta e poi tornava a farle. La cosa che faceva scorrere nel sangue di Mario ancora di più l’adrenalina era la disinvoltura di Gilberto. Questo portava a casa di Mario una carovana di gente, tre persone, e come nulla fosse si lamentava della stanchezza, lui, a forza di girare tutto il giorno e meno male che si era potuto riposare un attimo il pomeriggio. Presenta brevemente l’amica di Alberta, Federica a Mario chiedendo con quel tono di chi si chiede cosa avessi fatto tutti questi giorni come mai non era ancora tutto apparecchiato. L’adrenalina di Mario pompava che pompava. A quella osservazione avrebbe voluto sbranare Gilberto, ma non poteva. E Gilberto, il caro, il primo dei re magi, come se la rideva. Federica era una magra giovane mamma di circa 35 anni vestita di un abito di lana cotta coloratissimo a taglio geometrico come fosse una costruzione architettonica confezionato da lei stessa, con una figlia alta uguale e vestita con un paio di jeans e un maglioncino color panna di undici anni. Si seppe dopo che era stata spostata con un mezzo matto che non faceva nulla e le metteva delle gran corna e lei prese la figlia e se ne andò di casa. Sua madre, trentina anche lei, rigida e impietosa non le diede una mano e dunque cresceva questa figlia con tutte le difficoltà del caso da sola e in modo spartano e pragmatico perché in altro modo non poteva farlo. Sembrava una sciroccata strana ma in realtà era una specie di comandante più ligio e rispettoso dei doveri e delle regole di un gerarca dittatoriale. La bambina, porgendo la mano a Mario, educata come una principessa, sorrise con un sorriso nel quale Mario si era riconosciuto; come se lei volesse o dovesse nascondere una vergogna. Tra il papà che gli dà buca e sta mamma che pare voglia essere la sorella teenager ‘unsaccoalternativa da museo MoMa’ quasi voleva scusarsi dell’intrusione. Bastò lei a mettere in pace Mario. Alle ore nove del 24 dicembre Mario iniziò a sorridere. A sorridere veramente. Lui e quella bambina si sorrisero. I bambini si sa, sono più bravi ad affrontare la vita e non si fermano alle apparenze, anzi non le notano. Pare che fosse passata la cometa di natale su quell’appartamento microscopico all’ultimo piano di quel palazzo, ma tra una incasinata single con figlio a carico matta e perennemente con una ‘maria’ tra le labbra o nell’infusione per curarsi dallo stress, una rigorosa giovane mamma, la ragazzina e non bambina di 11 anni favolosa e Gilberto, superato il primo impatto in quei 4 metri quadri e mezzo parve che ci stesse una sala da pranzo del castello di Ludwig Neuschwanstein. Quello che ha ispirato Walt Disney per il castello di Cenerentola.
Mario da un lato a controllare con Fabiola, la figlia di Federica se la torta salata e i pesci in forno fossero cotti al punto giusto e ogni uno dava un parere dell’altro scambiandosi smorfie alquanto titubanti e ridendo insofferenti perché sotto la pizzeria da asporto era aperta. Gli odori di tutta la cena che profumavano la casa. Il forno che aveva riscaldato l’ambiente anche troppo. Alberta a chiedere dell’acqua calda perché doveva farsi la sua speciale tisana, ma nessuno la considerò nonostante le ripetute richieste. Gilberto e Federica a piazzare il divanetto per due ad un lato del tavolo quadrato di novanta centimetri apparecchiandolo, sempre per due, gli altri tre lati occupati ogni uno da una sedia e un piatto con posate, i 4 bicchieri spaiati in mezzo, i tovaglioli di carta appoggiati sui ripiani da cantina Ikea su chi si trovava tutto quello che apparteneva a quella cucina soggiorno. Mario e Fabiola a cucinare pasticciando. Nel chiasso e nell’affaccendarsi alle nove e mezza, tra l’insistente richiesta di Alberta per la sua acqua bollente per la tisana, le chiacchiere infinite partite tra Federica e Gilberto, i due cuochi, quel piccolo miracolo si siede tutto a tavola. In quel piccolo miracolo, in quel piccolo spazio il quel piccolo avere c’erano cinque persone che forse il resto dell’anno combattevano ogni uno la propria battaglia per l’esistenza. Ma lì vi assicuro che quella sera, fino alle due di notte, tra mangiare e parlare e ridere, tanto tanto tanto ridere, tutti deposero le armi e nessuno ebbe di che da combattere. Specialmente Alberta, ma lei perché la tisana speciale le faceva tanto bene, di più.
E un’altra cosa: tutto quello che fu cucinato era riuscito cotto al punto giusto, buonissimo e non rimase una briciola.
Il giorno dopo anche se era natale, anche se Alberta dovette andare a lavorare, anche se Federica e Fabiola ripresero il treno per tornare nel Trentino anche se Gilberto era andato a casa della sua famiglia per salutare i suoi, anche il giorno di natale trascorse con un sorriso sulle labbra di tutti e cinque. E non nascondeva nulla di brutto.
Mario non rivide più né Federica, né Fabiola, né Alberta fino ad oggi come a stento le aveva mai viste prima, ma tutti si ricordarono per sempre di quella serata.
Mario imparò che il vero natale era quello e non ne cercò mai un altro.
Grazie di questo bellissimo racconto!
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Ciao cara, grazie a te
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Mario è stato fortunato ad aver vissuto una vigilia di natale così “semplicemente” bella. Spesso anche chi arriva al 24 sera più preparato, con casa più grande, con cena più ricca e con tutti gli ospiti programmati da mesi alla fine passano una serata banale. Invece in quella piccola casa, fra semisconosciuti si è arrivati al cuore vivendo una serata intensa. Grazie per questo racconto che è un augurio di passare una vigilia in armonia con chi ci sta vicino, col buon cibo, con disinvoltura, l’augurio di non sentirsi solo e diverso fra gli altri! Buona vigilia anche a te Lucio e che ti resti dentro tutto domani!
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Grazie Patrizia, anche a te 😊
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