
La mia vita illuminata
Esiste un filo fisico tra inizio e fine della vita attorno al quale produciamo come bachi un filo che più o meno ingarbugliato, più o meno finalizzato, più o meno aderente, più o meno strutturato dipende dal nostro cervello. Maggiori saranno le circonvoluzioni maggiori saranno le sovrastrutture, minore luce entrerà nella vita e sempre più difficile sarà guardarla dal lato corretto e quindi illuminarla, fare luce. La metafora del fitto bosco che non lascia filtrare la luce mi ricorda il dedalo di sovrastrutture, desideri, pianificazioni che portano inevitabilmente al soffocamento delle nostre radici, del tronco educativo portante, delle foglie, comprese sovrastrutture e pianificazioni. A tratti apriamo delle finestre, piccole potature apicali che prolungano l’attesa e aumentano le sospensioni in desideri e pianificazioni. Mi si suggerisce spesso di avere spessore, di guardare le cose con il terzo occhio, ma credere di guardare col terzo occhio significa non avere spessore, significa entrare in un genere di visione che non voglio avere; voglio appartenere al non genere, categoria definibile, ma di per sé anarchica e quindi coerente con le mie rivisitazioni; non posso dirmi di avere vissuto fuori dagli schemi, ma proprio perché ho sempre provato senza riuscire ad appartenere ad uno schema devo accettare di esserne stato sempre e definitivamente fuori.