al centro del giardino fiorito dei miei nonni e mi sento triste. Mi ha sempre spaventato quel pozzo basso e quadrato pieno di acqua nera, ferma – a volte seduto sul bordo aspettavo il baleno rosso dei pochi pesci dorati, il colpo di luce mi riportava alla realtà e la paura del nulla riemerge ancora di colpo, perché ci deve essere un buco nero in quel giardino solare, sicuro e fiorito? Ho adulato, ascoltato, risposto, interrogato tanto per esserci. La piazza rettangolare è maggiormente popolata ai bordi dove si posizionano le varie componenti della società carpigiana che osserva e critica in maniera centripeta , con la loro visione centrifuga delle cose, che quindi non trovano posto ai lati. Nulla cambia dal gioco dei quattro cantoni, da bambino ad oggi, chi è al centro cerca un angolo nel quale rifugiarsi e per il quale essere simile agli altri tre, il centro è più scomodo, devi correre, usurpare, spesso per niente; ancora non credo che si possa scegliere di stare nel centro, ci si trova e basta, per cui diventa una piacevole abitudine alla diversità. Da quando abbiamo fatto la manifestazione in favore dell’aborto possiamo solo stare al centro della piazza, tutti ricordano le nostre urla in mezzo al silenzioso corteo diretto in Duomo, in classe noi adesso siamo diventati i colti coraggiosi che poi vivranno a Bologna, sono sempre stato fra i diversi, una spanna sopra ai compagni finiti in banca, io ne sono scappato. In realtà andavo a Bologna con la cinquecento bianca a cercare sesso con altri uomini, ho frequentato battuage, locali, feste private e pubbliche, ma ho trovato solo sesso, ma nessun uomo. Ci fermiamo davanti al teatro dove albergano i carpigiani colti, al bar Milano ci sono i carpigiani proletari, al bar Dorando i carpigiani belli e maledetti, al bar Roma i carpigiani che ci si credono, i convinti (stupidi e felici del proprio essere desertico) Le sere d’estate sono il punto di massimo relax delle giornate calde e umide; si alza un venticello che asciuga e rinfresca, la sera resterà per sempre il momento più bello della giornata, un punto fermo nella mia vita sarà il dopo spiaggia e la doccia che arriva la sera come premio alla pelle arrossata, la sera che ti libera dalla quotidianità, dai doveri, la sera porta molte cose piacevoli, i flirt nascono la sera col buio che uniforma tutto e, soprattutto tutti. Ho sempre cercato l’amore che non ho mai trovato, ma ricordo solo ora mia nonna che sussurrava: «fai finta di niente, fai vedere che sei disinteressato, guardalo con distacco e solo così arriverà, se lo cerchi lui scappa perché l’amore non vuole essere diretto nè direzionato, arriva solo quando e se ti sente libero» La nonna però dava anche consigli sbagliati forse in buona fede, cercava di crearmi paraventi dicendomi: «ti auguro la fortuna delle brutte che appena trovano un pollo se lo tengono stretto, sono formichine loro ….. le belle sono falene incontentabili che volano di fiore in fiore senza accontentarsi mai», avrei dovuto capire che le falene non volano di fiore in fiore, ma muoiono bruciate dalle lampadine nelle sere d’estate. Sono ancora single e molto bruciacchiato. L’autostrada A14 è finalmente deserta quasi come la mia vita da almeno dieci anni o giù di lì. Come unica compagnia una certa idea di depressione mai chiarita né definita, lei c’è e riempie i vuoti come un hobby. Abbiamo raccolto e provato molti farmaci e ce li siamo scambiati come si fa con le figurine, non volevamo imparare a soffrire, a non dormire e quindi pasticche per dormire, per svegliarci, per trovare coraggio, tutti così gli anni dell’università, passati a cercare di prolungare la vita bella, quella spensierata: quando esci dalle scuole elementari ti senti bene, poi alle scuole medie sei daccapo, l’esame di terza media ti fa sentire un gigante, poi il liceo ti risbatte in fondo, il diploma superiore è un passo enorme, poi l’università è una botta, non hai una classe, non hai un professore di riferimento, sei solo fra soli, poi ti abitui, conosci, frequenti, ami e capisci che finirà e sfocerà nella vita vera, penso che i fuori corso tentino solamente di non crescere, di non spiccare il volo; non li ho mai capiti, ma li ho frequentati per comodità, erano i più disponibili al nulla…………………..
Lia al volante fuma, nella 500 blu siamo stretti, ma ci piace, come ci piaceva scambiarci gli scooter per sentirci più amici; lo facevo spesso con Mara tornando dal maneggio; io le davo il Ciao, lei il Trotter con il motore davanti, mi piaceva sentire la ruota davanti che tirava il tutto, compresi i miei pensieri, mi sentivo leggero, di polistirolo, rigido, ma leggero. Marco me lo aveva detto mentre passeggiavamo per il centro di Modena, eravamo lì, ma lontani da tutti a vivere quella tensione che precorre le dichiarazioni.
Quella tensione rigida che ho sempre avuto. Da piccolo facendo le foto sul ponte del fiume Lama restavo immobile e duro con le mani appoggiate alle cosce, un unico pezzo; usavo la rigidità per celare la diversità.
Ero molto diverso dagli altri bambini, io non mi sporcavo mai, con le scarpine bianche uscivo di casa e con le scarpine ancora bianche ritornavo; mi sedevo esclusivamente su muretti puliti all’oratorio del cinema Eden per non macchiare i pantaloncini beige, non mi lasciavo toccare con le mani sporche di marmellata dai miei coetanei; lo facevo per la mamma, per non deluderla, per avere il suo amore.
Ancora non sapevo che lo avrei avuto comunque il suo amore grezzo, duro, ma profondo.
Anche mio padre era parco di attenzioni superficiali, ma pieno di amore profondo; da lui ho imparato che le chiacchiere non portano a nulla, i fatti contano nella vita, solo i fatti. La concretezza di quella campagna è entrata in tutti noi, la forza controllata di quei fiumi ci ha fatti crescere con lo stesso senno, l’amore per quei posti ha riverberato l’amore per il resto della mia vita: un amore eroico, struggente come lo sono le giornate torride, il caldo alza un muro attorno a te, non ti lascia scampo, ma ti rende pronto a quelle stesse strette che la vita ti offrirà.
E allora tu potrai reagire in due modi entrambi dolorosi, potrai rompere la campana di vetro che ti protegge e quindi esporti o potrai viverci sotto; io scelsi la seconda opzione e capii questo quanto Paolo, guardandomi sul bus 25, riferì ad Antonella che sembravo finto, sembrava che la gente non potesse interagire con me, ero come fasciato di plastica trasparente e niente poteva scalfiggermi, allora lo presi come un complimento, oggi mi costa in analisi per cercare di uscire dal bozzolo a 56 anni.
L’autostrada è finalmente deserta quasi come la mia vita da almeno dieci anni o giù di lì. L’unica compagnia …. la depressione, ma in forma lieve e mai chiarita né definita, so che c’è o è solo la mia idea di depressione che riempie vuoti particolarmente rumorosi?
Le strade sono come il mio presente; piene, ma di gente vuota, di auto piene di persone dagli sguardi svuotati, senti che ti guardano senza vedere che ci sei e che urli il tuo bisogno, la tua voglia di loro, sorpassano e vanno, non li rivedrai mai più, non resta niente, vuoto, pioggia, sole, strada, autostrada, casello, verde, un cimitero, gente che rincorre una palla….niente.
Mi sento così da quando ci siamo staccati senza un perché, in amicizia, allegramente, stanchi ed esausti; diciamo che il tuo vuoto che mi hai trasmesso, senza cattiveria e senza la voglia di darmelo, si è nuovamente riempito con il vuoto abituale alla mia anima, vuoto su vuoto; vuoto contro vuoto.
Il nulla che porta la pace non è mai arrivato, sono pieno di vuoti rumorosi che nemmeno posso rendere ad un’idea pianificata di vita, ad un’idea abitudinaria di vita, ad un’idea di vita almeno, sono solo ricordi più o meno lontani e vaghi, più o meno chiaro scuri, più o meno…… in fondo è vero che a furia di voltare pagina finisce il libro!
Le pieghe dell’esistenza ci hanno separato come quelle dei tessuti separano fra loro le valli della morbidezza prima della stiratura; sensazione di abbandono che subentra all’abitudine, al vuoto, piega/liscio/piega/liscio e poi tutto liscio, morbido come il senso di abbandono, come la solitudine cercata agli inizi è gioia, poi tristezza, ossessione, malessere. Ho solo nostalgia del futuro,
La fobia sociale, detta anche disturbo d’ansia sociale, è un disturbo che si trova nel capitolo dei disturbi d’ansia del DSM-5 (tra cui ricordiamo il disturbo da attacchi di panico e il disturbo d’ansia generalizzata). La fobia sociale è un disturbo caratterizzato da paura molto intensa che riguarda una o più situazioni sociali ben definite (ad es. parlare in pubblico, mangiare in pubblico etc.). Spesso le cause della fobia sociale riguardano comportamenti appresi (ad es. avere sperimentato situazioni pubbliche umilianti, essere stato oggetto di aggressione etc.) oltre a pensieri disfunzionali relativi a se stessi e agli altri. La cura della fobia sociale prevede la psicoterapia, la terapia farmacologica o entrambe.
Fobia sociale
La caratteristica principale della fobia sociale è l’intensa paura o ansia di situazioni sociali in cui un soggetto può essere osservato da altre persone. Chi soffre di fobia sociale infatti vive reazioni emotive intense collegate ad alcuni contesti sociali, nei quali il soggetto ha paura di essere giudicato in modo negativo. In genere la paura collegata alla fobia sociale è quella di essere visti come persone deboli, ansiose, non equilibrate, stupide, noiose o comunque giudicate negativamente. La paura porta ad evitare luoghi e situazioni che potrebbero attivare i sintomi ansiosi. La persona così riduce sempre di più le attività, i luoghi e le situazioni quotidiane, innescando un circolo vizioso che porta ad un peggioramento del quadro fobico e a una importante riduzione della qualità di vita.
Parlare in pubblico è la più frequente e diffusa fobia sociale specifica. Ma qualsiasi situazione sociale può diventare fobica. Spesso l’ansia si presenta in modi anche molto differenti tra loro. Chi soffre di fobia sociale può infatti lamentare, per esempio, ansia anticipatoria caratterizzata da uno stato ansioso permanente, che dura molte settimane, prima di un evento sociale temuto. Oppure può presentarsi in modo più intenso, ma meno duraturo nel tempo, come ad esempio un forte attacco di panico collegato ad una situazione sociale temuta.
Fobia sociale, età d’esordio e prevalenza
La fobia sociale è più diffusa di altri disturbi psichiatrici. Si stima infatti che circa il 7-13% delle persone sperimentino, nell’arco della loro vita, i sintomi di questo disturbo (Keller MB, 2003; Schneier, 2006). L’ansia sociale può presentarsi in comorbilità con altri disturbi psichiatrici, in particolare altri disturbi d’ansia e disturbi depressivi.
La fobia sociale esordisce in genere nella prima adolescenza (Stein, 2008) ed è presente in misura maggiore nel sesso femminile (circa il 60%) rispetto a quello maschile (Ruscio et al., 2008). L’ansia sociale, così come molti altri disturbi d’ansia e dell’umore, è correlata a problematiche sociali (ad es. ridotta produttività lavorativa) e ridotta qualità della vita (Stein, 2005).
Sintomi e diagnosi del DSM-5
La fobia sociale compare nel DSM-5 nel capitolo dei disturbi d’ansia. Viene definita da un’intensa paura e ansia collegata ad una o più situazioni sociali. Spesso la fobia sociale può riguardare interazioni sociali con persone conosciute e non conosciute, situazioni nelle quali si può essere osservati o quando si agisce una prestazione davanti ad un pubblico (ad esempio parlare davanti ad un gruppo di persone).
Secondo il DSM-5 inoltre per fare diagnosi di fobia sociale è necessario che la reazione fobica sia presente da diverso tempo (almeno sei mesi), sia intensa e sproporzionata. Inoltre il disturbo deve provocare un significativo peggioramento del funzionamento del soggetto (ad es. attraverso comportamenti di evitamento) e della sua qualità di vita.
Il DSM-5 inoltre definisce due tipologie di disturbo d’ansia sociale. Se infatti i sintomi si presentano solamente quando il soggetto deve effettuare una performance pubblica (come parlare in pubblico) allora si parla di “disturbo d’ansia sociale correlato alle performance“. In genere questo tipo di disturbo può essere diagnosticato in musicisti, ballerini, atleti etc. In casi in cui invece il disturbo si presenti anche in altri contesti sociali allora si utilizza la denominazione semplice “disturbo d’ansia sociale“.
Cause della fobia sociale
Le cause che portano a sviluppare una fobia sociale non sono ancora del tutto comprese. Come per altri disturbi psichiatrici comunque le cause del disturbo sono multifattoriali e comprendono una vulnerabilità temperamentale, eventi di vita avversi e situazioni sociali predisponenti.
Come per le fobie specifiche anche l’ansia sociale sembra essere collegata a comportamenti appresi in passato, in genere in età infantile, in persone predisposte. Esperienze negative nel passato, come essere oggetto di umiliazione pubblica, o di critica o di aggressione possono portare a sviluppare il disturbo.
Le persone con fobia sociale spesso sono caratterizzate da una bassa autostima e alti livelli di autocritica (Cox BJ et al., 2004) elevata paura del rifiuto e del giudizio altrui.
L’esposizione graduale
Una delle strategie terapeutiche, secondo l’approccio cognitivo-comportamentale, è l’esposizione graduale del paziente a contesti fobici temuti. Così come per le altre fobie, anche per la fobia sociale l’esposizione prolungata allo stimolo temuto produce una graduale de-sensibilizzazione con riduzione dell’ansia.
Si invita quindi il paziente, gradualmente, ad esporsi a situazioni sociali temute. Con il progredire delle esposizioni la reazione ansiosa tende a ridursi e il paziente riesce ad affrontare più serenamente i contesti sociali temuti. In aggiunta alle esposizioni graduali si insegnano pratiche di rilassamento e di meditazione (come la mindfulness) per modulare le proprie risposte emotive.
La ristrutturazione cognitiva
Altro aspetto della psicoterapia cognitivo comportamentale per la cura della fobia sociale è la ristrutturazione cognitiva. Attraverso il colloquio, le pratiche di mindfulness ed esercizi foglio matita lo psicoterapeuta aiuta il paziente a diventare consapevole e successivamente a modificare i pensieri irrazionali che sostengono il disturbo.
Vengono identificati pensieri automatici del paziente come ad esempio “non piaccio a nessuno”, “sono una persona noiosa”, “gli altri non mi accetteranno mai”. Una volta identificati si cerca di modificarli con pensieri più realistici e funzionali.
Socrate ha avuto sicuramente una morte non bella. Potrebbe essere ingannevole e fuorviante per rispondere a questa domanda, la sua vita da eroe guerriero ed intellettuale; ma parlando della sua morte, questa è decisamente una morte non degna di tale vissuto. Non tanto perché Socrate non era ben visto ai suoi tempi per l’innovazione che aveva portato nel mondo del pensiero, ma per come sia dovuto morire e abbia voluto morire. Ormai troppo vecchio per continuare a vivere al di fuori della sua città e mentalmente troppo giovane per arrendersi alla sua innovazione intellettuale. ?= non cede in merito alla sua visione etica e alla sua dottrina. Quella resta giovane, viva e costante.
La morte che lascia dietro un uomo simile è presumibile che sia dal punto di vista psicologico, una morte di grande ripensamento, denotato dal fatto che lui stesso sogna le muse che gli indicano “Socrate, fai della musica!”. Perché infine ci si chiede se poi ne sia valsa la pena. Perché non muore di morte naturale, muore in un carcere, è rinchiuso e destinato ad avvelenare il suo corpo. Decade con questa volontà di aderire alla condanna, la volontà stessa di una vita fondata sulla libertà dell’uso della propria esistenza a discapito di ogni tipo di convenienza. È dunque conveniente per un uomo di simile statura essere giudicato imprigionato e avvelenato? No, Socrate non ha affatto avuto una bella morte. La sua non fu la decisione presa da quell’uomo pieno di vigore nel vigore della sua vita, ma riuscì ad essere finito solo infine, e si finì.?? = Altro non c’era da fare. Se Socrate fosse stato portato in tribunale ad un’età nella quale il suo intero sistema era ancora orientato verso una lotta di altro tipo, quella giovanile (vigore anziano VS vigore giovane); la decisione fu più che sua e della vita “biologica” di un uomo che a 70 anni tende naturalmente a dismettere la guerra, in tutti i sensi. Fu una scelta sua di mettere la parola fine ad un percorso (eroe conscio di esserlo, ma anche di non esserlo fisicamente più). L’essere eroe non è per forza sinonimo di morire da eroe, si può morire anche perché si è solo vecchi, stanchi di combattere e di difendersi da un mondo, che evolvendosi, non riconosciamo più e che sempre meno si adatta alla nostra visione del mondo stesso.
MOTIVAZIONI AL PENSUM
In merito al Pensum, che si chiede se quella di Socrate fosse stata una bella morte, ho dedotto questa mia visione sulla base di un insieme di scienze che infine mi hanno fatto protendere in tal senso, e cioè che Socrate non abbia avuto una bella morte .
Le scienze che ho unito sono la psicologia individuale, la psicologia sociale,l’antropologia nel contesto politico di Atene del 399 a.C.
Parlando di psicologia sociale ci troviamo ad Atene, come sappiamo, nel 399 A.C. Dinanzi ad una popolazione, che sta andando incontro a quel declino umanistico, preservato in passato da un concetto politico, democratico. L’individuo pur in nome della pluralità di opinione e del diritto di opinione e da cittadino libero invece scoprì una persistente forma di visione del “vantaggio per sè stesso” sempre di più, e si adegua al fine di sopravvivere, ad un sistema di affossamento verso il prossimo con ogni mezzo, l’accusa di un reato, specialmente. La calunnia.
La società ateniese dell’epoca, quella società che avrebbe dovuto essere in realtà la culla della conoscenza e del sapere e della giustizia (Dike), era formata da una tendenza sociale verso il potere, verso la guerra, verso la corruzione e dunque verso la salvezza di sè stesso contro quella dell’altro con tutti i mezzi. L’etica in un ambiente sociale di questo genere non trovava certo molto spazio.
Tant’è che se i romani avevano le arene nelle quali gli schiavi, i gladiatori, i condannati venivano costretti a lottare tra di loro per sopravvivere o contro bestie feroci, gli ateniesi erano in grado di scaricare catarticamente la loro sensazione di debolezza, trasformata in sete di potere, in un luogo più crudele di un’ arena: il tribunale. A mezzo dei tribunali, che anziché essere diventati mediatori della civiltà affinché essa non implodesse in sè stessa, questi diventano il luogo dello spettacolo dell’esercizio di potere verso il prossimo, il più debole. L’accusato è esposto a tutti, e tutti possono scaricare su di lui le loro “lacune morali”, etiche, sociali, ideologiche uscendone alleggeriti. Una forma di teatro tragico in un contesto reale, dove lo svolgimento non è finzione e dunque il massimo della libidine catartica. D’altronde l’uomo di Atene veniva allevato come l’uomo spartano per difendere la sua città pur essendo cittadino della città della cultura e della filosofia. L’indole bellica del guerriero e dunque verso il prossimo, era parte facente di sé. Di ogni individuo e quindi della massa. La natura arcaica dell’uomo e dunque della società.
Parlando invece dell’antropologia nel contesto politico, evidenzioquesta Atene, così unica nel suo essere democratica, in un mondo in cui la tirannia, la monarchia, l’oligarchia erano le consuete strutture di ordinamento politico e di esercizio del potere. Pur nella sua unicità come società democratica, Atene non ha potuto evitare, soprattutto seguendo la stessa politica rappresentata dai suoi dèi omerici o cosmogonici così tanto “umani”, di essere una città, incapace di superare il divario tra ordinamento e istinto. Gli istinti dell’uomo a partire da quello della sopravvivenza che si lega all’avidità, per essere muniti di beni che proteggono la sua vita, l’aggressività e l’individualità necessaria a questo scopo, non sono riusciti ad essere prevalenti al concetto democratico in termini pratici nell’Atene di esempio politico dell’umanità. Fortificare l’unione dei cittadini anziché dividerli, non è riuscito nei secoli della democrazia ateniese. Si è generata una competizione sociale non verso il nemico esterno della città, ma anche verso il nemico interno nella città, cioè il proprio vicino e secondo Socrate, se stesso, il daimon individuale dell’ateniese in ogni sua accezione, innanzitutto confutatoria e di coscienza morale ed etica. Atene non aveva investito, nei secoli della sua democrazia, in una vera educazione del concetto di giustizia intrinseca nell’individuo, nei giovani non versa il suo autentico scopo democratico. L’esempio dei padri, del cittadino prossimo, decade nella quotidianità ateniese, nelle strade, nelle scuole, nei tribunali, perché non solo a parole ma soprattutto nei fatti è orientato prevalentemente a sè stesso. I poemi epici e lirici insegnano al greco, all’ateniese che l’uomo è pericolosamente e inevitabilmente caduco e che dunque deve porre attenzione a sè stesso e alla sua proprietà e ai suoi beni in una società individualistica ancora mascherata da democrazia. Politicamente l’Atene della Grecia di allora, quella di Socrate, aveva perso da tanto, quella visione germinale di grandezza sociale, trasformandosi in un agglomerato ove la disumanità vigeva in ogni angolo delle strade basata sulla la legge del più forte.
Ora invece affronto il lato della psicologia individuale e parliamo di Socrate. A seguito della psicologia sociale e l’antropologia nel contesto politico ateniese di cui ho scritto sopra, ipotizzo che l’insieme della psicologia sociale è costituita dall’insieme di una psicologia individuale; l’individuo ateniese viveva in un mondo strutturato da due paralleli, in cui una linea era strutturata su principi di condivisione del sé nella massa a mezzo del diritto di opinione, della mutua assistenza del prossimo e della giustizia che possiamo chiamare democrazia, mentre l’altra linea invece era rimasta ferma sull’antropologica essenza arcaica dell’uomo che, nel suo insieme, deve sopravvivere giorno dopo giorno non così protetto come avrebbe dovuto secondo la linea della democrazia. Queste due line si erano ormai avviate ad un percorso in cui il punto di incontro non sarebbe mai avvenuto.
A tal proposito l’approfondimento è doveroso verso uno specifico individuo della città di Atene del 399 a.C., che è l’oggetto del pensum e cioè Socrate.
Socrate è un ateniese allevato da un bravo lavoratore, sicuramente dai principi morali sani ed una brava lavoratrice dai principi morali altrettanto sani. Pur non essendo di famiglia abbiente o nobile acquisisce conoscenza, oltre il consueto addestramento alla difesa della città che ne fa di lui un guerriero.
Suo padre è uno scultore che maneggia pietra, materia dura e la trasforma in una forma che è morbida e piacevole e dunque il ragazzo guerriero incontra la bellezza derivante dalla durezza di una materia plasmata dall’uomo, mentre invece d’altro canto è influenzato dall’altra figura della sua vita che è sua madre, capace di partecipare e contribuire alla nascita della vita. Indubbiamente, posso presumere che Socrate avrà visto, essendo presente, sua madre gioire quando la nascita era avvenuta senza problemi, così come avrà partecipato al dolore quando invece queste nascite finivano con un morto, che fosse esso l’infante o che fosse la madre. Parliamo di una società antica, dove il parto era una scommessa con la morte. Qui si sviluppa già un Socrate capace di valutare le dicotomie dell’esistenza. Durezza e morbidezza, gioia e dolore, vita e morte. Qui inizia già il suo percorso, dell’opportunità della ragione di una scelta, di fronte ad una condizione. Posso ipotizzare che la sua necessità di ricerca confutatoria possa nascere proprio da queste esperienze dicotomiche che richiedono la capacità prospettiva di accettare contestualmente le verità della vita attraverso la comprensione. Un pezzo di marmo non è solo materia dura ma sarà oggetto di utilità al piacere se faticosamente lavorato, la vita perduta è da accettare a fronte di una vita nata.
I paralleli citati, in Socrate si incrociano e smettono di essere paralleli dopo molto tempo. La ragione che porta ai principi arcaici della democrazia di Atene incrocia il lato umano istintivo dell’uomo che genera una messa a conoscenza di sé che ambisce alla via giusta. Al bene per sè e per gli altri per mezzo della comprensione e della verità ottenuta dall’incrocio dei paralleli.
Educato al rispetto da genitori onesti in una società non tanto rispettosa del rispetto stesso, esso compie i suoi doveri andando in guerra dove, per sopravvivere, deve uccidere altri uomini e dove la sua tendenza all’onestà e al dovere si sente difendendo i cittadini di Atene, mettendo a rischio anche la propria vita; ciò viene anche dimostrato dal salvataggio del suo compagno di battaglia che Socrate considera una naturale forma di essere e non qualcosa da premiare e di cui farsi vanto. Salvare il prossimo è un dovere umano, razionale e quindi morale ed etico e non un vanto con cui fregiarsi.
L’incrocio dei due paralleli trasforma Socrate in un essere ateniese unico, l’atopia socratica appunto. Come Prometeo da solo sfida tutti gli dèi portando il fuoco agli uomini, egli cerca, da solo, di portare agli uomini ateniesi del suo tempo quel lato loro che non gli permette di essere in contatto con quella linea dai principi morali sani di un’ Atene politica, istituita molti anni prima, che era andata perduta nel tempo. Come Prometeo sarà punito, ma come uomo non sarà salvato da un semidio, da un eroe.
Dedica tutta la sua vita nel tentare di educare gli altri con le sue confutazioni esplicative, mostrando ai suoi concittadini un limite individuale da superare, invitando alla modestia e umiltà indirizzate alla crescita costante del proprio essere. Al fine di divenire persone migliori psicologicamente, per sé e dunque per gli altri, implementando così, in una psicologia sociale disgregata in semplici unità, l’essere individuale di una società proiettata alla comunità che si è andata a perdere nei secoli.
A tal fine Socrate affronta la povertà, rifiuta i privilegi, vive con la stima di pochi e lo scherno di molti, lotta come lottava nelle sue guerre fino all’ultimo, difendendo i suoi principi. Li persegue giorno per giorno a discapito anche della sua vita personale. La moglie non è proprio felice della situazione, ma Socrate ne sopporta le lamentele, eppure prosegue. Socrate è uno che non molla. Non ha mai mollato. Ha creduto sempre che l’uomo possa essere di più. Che la sua Atene possa essere di più. Il marmo può divenire morbidezza, bellezza, piacere. Perché Atene no?
Nonostante la stima di diversi che danno ascolto alla sua filosofia, al suo progetto, alla sua intenzione, questo suo essere non trova riscontro nella cittadinanza ateniese. L’uomo ateniese non percepisce.
La difesa dei suoi principi e degli ateniesi, della sua filosofia, termina in un’arena in cui l’assetato individuo senza speranza, quello della linea parallela della sopravvivenza istintuale, vuole esercitare il suo potere anche contro colui che ha tentato di difenderlo da sè stesso e da una condizione sociale, politica e antropologica della quale è vittima inconsapevole. La democrazia viziata.
Penso che Socrate non si sia arreso alla fine. Non a sè stesso, ma penso che Socrate si sia posto la domanda, lì di fronte a tutti gli spettatori, di questo spettacolare tribunale teatro-arena, quest’ultima diaspora, da uomo della sua età, uomo psicologiamente anziano e settantenne, meno impetuoso e più riflessivo, di che cosa fosse successo.
Guardando con gli occhi di quell’uomo settantenne, in piedi, oggetto di uno spettacolo che rappresenta tutto ciò che ha combattuto rinunciando a tutto, vedo ciò che vede lui: che tutto il suo lavoro non è servito a niente.
Socrate non può sapere in quel momento quanta influenza avrà invece la sua vita, il suo operato e il suo sacrificio nel futuro storico dell’umanità. Non gli è dato a vedere nel futuro, non è un Dio. Socrate non sa che nel 2020 Lucio Scarpone sta scrivendo qualcosa su di lui, he lo analizza ed è partecipe della sua essenza lasciata ai posteri.
Socrate è lì, l’immagine che vede è quella. Li vede tutti quanti, lì, assetati di sangue ad assistere a questo processo, a volere vedere questo soggetto sconfitto, e si accorge che non vogliono vedere Socrate sconfitto, ma vogliono vedere l’accusato sconfitto insieme alle sue idee. Si certo, i nemici di Socrate, quelli politici, quelli che per convenienza vogliono mettere fine alla sua parola, vogliono vedere Socrate sconfitto. Per questo lo devono attaccare, e devono attendere anni ed agire a mezzo di un ‘ giovane ingenuo portavoce’ ignaro dell’uso che ne viene fatto di lui. Tanto è temuto. Quando Socrate ormai non è più in tali condizioni di forze, da riuscire a difendersi. E non perché non ne avrebbe le capacità intellettive o retoriche o dialogiche, ma perché anche un uomo così stoico, così forte, così resistente, come il marmo, così orientato con ogni mezzo a raggiungere la bellezza dell’umanità attraverso la conoscenza, ha il diritto mettere la parola fine al suo operato esistenziale terreno. L’anziano Socrate mostra la sua atopia anche in questo. È moderno, odierno. Non si accanisce all’infinità vita. Sa cedere il passo al tempo e alla caducità, proporzionando la forza del mondo alla forza della sua vita. Ancora oggi cosa rara. Se ci guardiamo attorno.
E la parola fine non è stata messa dai suoi nemici politici, che lo accusavano, ma è stata determinata da una presa di coscienza di un uomo anziano, cioè da sé stesso.
La visione del pubblico, di questo evento di cittadini ateniesi, che erano lì a fare da spettatori, manifestando la disumanità che la democrazia aveva generato attraverso il tribunale. Quel teatro in cui uno dei 200 show annuali voleva vedere un uomo condannato. Non la giustizia, ma la condanna. E questa volta in arena al pubblico veniva offerto un personaggio famoso. Non posso non immaginare la veemenza del pubblico, il godimento sadico di individui orientati alla sopravvivenza, frenati da leggi che impedivano loro essere liberi di agire, verso il prossimo, come istintivamente erano portati ad essere. Gli ateniesi del V sec. a.C., erano allevati a guerrieri, ricordiamocelo. L’uccisione richiedeva sadismo, egoismo, incoscienza, aggressività.
Personalmente penso che questa visione, scioccante e illuminante che si pone dinanzi ad un uomo che in tribunale non era mai stato, da attore, a questo tipo di spettacolo fenomenologico. Che i tanti che lui voleva salvare da una Atene democratica, viziata e che li aveva allontanati da quella civiltà esemplare, l’uno esposto contro questi altri, alla mercé di una giustizia alquanto precaria in quanto corrotta, dà il diritto a Socrate, non avvezzo alla linguistica dei tribunali, di dubitare anche di sé stesso.
Se la sua opera di vita sia stata un’opera per la quale ne sia valsa la pena sacrificare l’esistenza, vedendo con i suoi occhi ora, in piedi in quel tribunale quanto poco in realtà lui abbia raggiunto.
La sua posizione gli offre una prospettiva terribile. Le voci, i movimenti, le emozioni, le esternazioni di una natura umana concentrata contro di lui nella sua peggiore accezione.
Che forse Socrate non abbia capito quanto nella giusta Atene sia poco importante la giustizia e quanto più la vendetta?
Ciò che viene riportato durante il suo mese di prigionia, ciò che si riporta abbia manifestato, lo interpreto come una dignitosa, non sorprendente dignità socratica, che attende la sua fine. Un uomo capace di resistenza psicologica, di resistenza fisica notevole e di dignità pari quella dell’onesto lavoratore padre e dell’onesta lavoratrice madre, entrambi portatori di bellezza artificiale e vivente e non è nella sua natura scendere in emotive esternazioni che esulano dalla ragione sopraffatte dall’emozione.
Posso scorgere in lui il naturale timore verso l’atto della morte, al di là delle sue dichiarazioni, quando attinge ai sogni in cui le muse l’invitano al canto e quando un dio gli annuncia la morte.
Quegli dei, dei quali la sua razionalità gli aveva fatto sorgere il dubbio, così come posti nei termini teologici da Esiodo e Omero, gli appaiono alla fine, di fronte al grande dubbio. Questa deviazione, così umana, così significativa di un timore comune, quello verso la morte, mi porta a pensare che Socrate probabilmente non si sente un uomo che muore da eroe. Ma un uomo che muore dopo che, per una vita intera ha tentato di cambiare un mondo che amava. Il mondo di Atene.
Non è comunque nella sua natura scendere a commiserevoli scene, tant’è che non le ha ammesse nemmeno ai suoi famigliari al fine di difendersi da una condanna a morte che aveva previsto.
A proposito dunque della bella morte di Socrate io penso che la morte di Socrate è la morte di un uomo, non di un eroe. Un uomo unico in tutte le sue accezioni. Come non ha sentito il bisogno di essere eroe salvatore del suo compagno di battaglia, non ha sentito il bisogno di essere eroe per nessun motivo, anche per la filosofia che era per lui naturale. Come uomo aperto al dubbio e alla insipienza ed alla confutazione, non escludo che abbia messo in dubbio il senso del suo operato. Come ogni rara persona capace di conoscenza di sé e dei propri limiti. Al di là di quanto abbia dichiarato nei suoi ultimi giorni non posso dare atto che lui sia morto di una bella morte, perché non è morto da eroe, lui non sapeva, non poteva sapere nulla di quello che la sua figura avrebbe portato nei secoli. È morto con le sue paure, con i suoi dubbi e forse anche con i suoi pentimenti; La sua sconfitta nel non essere riuscito a lasciare a quella platea una parte di sé, è andata con lui nella sua tomba. In intimità. Con il suo demone. Non con il suo seguito o pubblico.
Quando mi iscrissi al corso di scrittura creativa non mi aspettavo qualcosa di particolare. Durante la prima lezione ho ascoltato e osservato un’umanità piuttosto variegata e disomogenea, purtroppo la mia struttura mentale da analista comportamentale si è innescata in automatico e quasi me ne scuso, un’analisi non richiesta è probabilmente un’analisi poco gradita? Quindi eccolo il piccolo mondo chiuso in una stanza senza finestre, mai mi sono sentito così “pesce tropicale” circondato dai “neri e silenziosi” che osservano e forse ascoltano gli altri, i “gialli e ciarlieri” che trovano nei corsi un modo per parlarsi, per esplicitare l’infelicità che li attanaglia, i “blu navigati” che frequentano i corsi in primis per sciorinare le loro opere e cantarsi a fronte di una miriade infinita di insuccessi, gli “arancioni alternativi” che sono qui per caso e sono stati, forse, attratti da qualcosa di indefinito, di indecifrato, ma di sicuro profondissimo; i “bianchi folgorati” dalla loro immensa capacità aspecifica, indefinita, ma immensa! La classificazione degli altri mi rende la vita più semplice, mi fa capire chi sono quelli a me più simili e quali sono invece lontanissimi, rende più oliate le procedure di avvicinamento e di raggruppamento aldilà degli inziali sorrisi circostanziali, nel caso io preferisco i gialli e i bianchi senza ombra di dubbio. Il momento che unisce e cattura tutti arriva improvviso quando si materializza il “compito a casa”; si deve scegliere una foto e ricamare un racconto, anche breve, ma un racconto stimolato ed ispirato da e ad una foto qualsiasi e non per forza nostra (io amo poco i racconti perché in loro non si sviluppa la complicità necessaria a crearmi interesse; il racconto non mi è complice!) Inoltre lo vivo come frutto di chi ha poco da dire o sceglie di dire poco, ma questo è solo uno dei miei tanti limiti probabilmente, un limite certo alla mia concezione eroica della vita, un libro è tale solo se di almeno mille pagine, gonfio di dolore, malessere e lacrime! Magari lo scrittore ha pure la tisi ed è certamente poverissimo, solo attraverso la vera sofferenza l’uomo tira fuori le sue reali profondità! Apparentemente quindi imbastire un racconto sarà molto semplice, troppo facile e piuttosto banale come inizio. Il tempo scorre, la lezione finisce e ognuno la conclude coerentemente alle sue aspettative, al suo personale modo di rapportarsi; molte delle mie classificazioni sono corrette, ma come sempre, non così rigide come le vorrei, la vita come sempre sorprende in ogni suo aspetto, anche minimo. Esco ed accantono il tutto dedicandomi alle sole rogne del vivere quotidiano e solo due sere dopo mi avvicino alla scatola delle fotografie per scegliere quella che sarà la sorgente del mio compito; guardo quella scatola bianca, liscia, non facile da aprire, la afferro e mi siedo. Io e la scatola, una sera, le luci dei colli intorno a Sasso Marconi illuminano le ville immerse nel silenzio, buie, un po’ ostili. Apro la scatola a fatica e subito mi aspetto un viaggio divertente nel mio passato, ma capisco dalla prima fotografia che non lo sarà; mi assale una tristezza strana, una morsa di tempo andato, non solo e semplice passato, ma andato via; passano i visi e i luoghi della mia vita come se la vita potesse essere un vero breve passaggio che va via senza lasciare troppo; adesso mi è chiaro il perché ho scelto una scatola difficile da aprire, proprio per aprirla il meno possibile, santo inconscio che spesso ci salva dal conscio che noi invece ci sforziamo di far emergere appena possibile, secondo noi umani il conscio e il raziocinio dovrebbero addirittura essere l’ossatura portante della vita e le emozioni diventare quindi controllabili da “controllofobi” mal celati quali siamo!
Tra tutte le foto così intime, così reali, così evocative, così mie, non riesco a scegliere. Ogni foto mi scatena una marea di ricordi e di parole irrefrenabili che si sovrappongono furiose mentre sfoglio i piccoli album, non so più se penso alla gita al mare o al mio amico che non ho più visto, tutto si mescola ed emerge un fiume unico, la vita, la mia vita che non è ancorabile ai singoli ricordi, ma tra i ricordi scorre e si snoda, spesso porta al futuro con rinnovata energia, a volte si ferma ad un certo punto per alcuni e lascia un rivolo al quale i superstiti si avvicinano, vi immergono le mani e vanno avanti, capisco quanto vero sia che l’esperienza non si accumula, che ogni giorno è una nuova sfida, mi sento anche banale, ma meno in pericolo perché dai ricordi ci si può anche difendere! La cartolina ha un mazzo di stelle alpine rivolte al sole del mattino tiepido, di un colore così nitido e trasparente che ti permette di scorgere lontano il confine svizzero, i petali grassi si aprono alla luce quasi sforzandosi di essere in prima fila per avere il sole migliore, i gambi si stirano e diventano lunghi e sottili per avvicinarsi il più possibile al calore; le rocce dalle quali spuntano faticosamente sembrano vivere e fare parte di un impianto radicale unico, ingegnoso, ma spaventoso al tempo stesso, come lo sono i ricordi che si mescolano nella mia vita; sono materie diverse, ma si uniscono perché con loro e in loro vado avanti ribadendo ogni giorno l’importanza delle differenze, della visione d’insieme che devo avere, dei dettagli che devo tralasciare e delle classificazioni inutili che devo smettere di fare; dovrei aprirmi alla vita di più e considerare gli altri anche come ricordi, foglie grasse, pregne di senso che un giorno certamente capirò del tutto. Le stelle alpine hanno una vita molto dura, è difficile superare l’inverno freddo e pieno della neve delle montagne altissime; i petali quasi si scardinano per dare evidenza al cuore della pianta, giallo, peloso che racchiude il senso della vita, il seme che farà sbocciare un fiore gemello o certamente molto simile. Quindi i ricordi sono forse il cuore della mia intimità? Il seme che fa sbocciare ogni giorno una ritrovata energia? Il coraggio di chi va avanti anche senza senso? E la luce ha davvero il potere di rinvigorirmi? Il punto di partenza obbligatorio al quale cerco di sfuggire e che immagino di tenere a distanza semplicemente con l’aiuto di una scatola difficile da aprire?
Il telefono continuò a squillare mentre passava l’aspirapolvere. Aveva già pulito gran parte dell’appartamento e stava finendo usando il pezzo a becco stretto per togliere bene i peli del gatto fra i cuscini del divano. Si fermò ad ascoltare e spense l’aspirapolvere. Andò a rispondere al telefono. “Pronto?”, disse
“Pronto, ciao sono io. Ti prego non riattaccare, ti prego!” dissi col fiato corto e secco.
Dall’altra parte nessuna risposta. Solo il brusio di questo telefono grigio e vecchio dal quale non riesco a staccarmi solo perché era tuo. Tu lo amavi. Design povero, come quello che ti potevi permettere. Lo conservo perché ci sono le tue mani stampate sopra, le tue mani sudate e nervose quando le raccontavi di improvvisi impegni e conseguenti ritardi.
“Sei solo in casa?” ansimai con fare intrigante.
La sua voce morbida sparò un secco “Si”
“lo sai che mi manchi vero?” lo incalzai. “ Come so che ti manco, ma hai scelto lui e quindi, cosa potrei inventare adesso? Cosa mi resta da fare secondo te? Adeguarmi immagino, dirai!”
Uno spazio vuoto, noi lontani milioni di chilometri, ognuno nella propria galassia.
“Pensa che situazione ridicola, sono addirittura venuto a vivere sulla collina solo per vedere la tua casa in fondo alla valle. Per spiare le sagome muoversi nella luce della cucina, a sognarmi lì con te. Adesso non posso nemmeno aprire il balcone perché quando la vostra luce si accende, mi viene da gettarmi nel vuoto per raggiungerla. Vorrei saltare il fiume in fondo e sedermi di fronte a te, al tavolo della vostra cucina, in una casa solo per noi – tu , io e felizgatto. L’ho raccolto, salvato, ripulito e accudito, come ho fatto con te appena uscito dalla comunità. Siete uguali, irriconoscenti, bugiardi. Prima le fusa e poi la fuga. Come può l’ amore svanire nel nulla?” Silenzio. Ansia, poi concludo: “Ok. Capisco che non devo telefonare a casa vostra, “Casa vostra” la mia voce diventa flebile e poi si spegne.
Nessuna risposta, nemmeno un respiro, solo una persiana sbattuta rivela la presenza rassegnata. Sei da sempre una persona di poche parole, ma soprattutto di pochi fatti. Penso che la comunità ti abbia svuotato, insieme alla voglia di eroina ti hanno levato anche il carattere!
“ Ho il diritto di sentire la tua voce” ripresi “ di chiamarti quando entro in apnea di te. Per me eri importante. Ti ho elevato al rango di uomo, ti ho sostenuto come un dio in terra e tu ti sei adeguato. Lo sai, no, più uno è ignorante più gli viene naturale sentirsi geniale”
Mi sparò un’altra banalità dritta fra gli occhi. “Sei come al solito pieno di odio e di rancore. So che ti devo molto, ma ho scelto lui. Mia moglie mi ama e io non posso farci nulla. Non si deve resistere all’amore”
Rimasi muto, comodamente sistemato sulla poltrona. Un ghigno di scherno disegnato in faccia “Se io sono il solito, tu cosa sei? Mi hai corteggiato e adulato per nove anni per poi buttare via tutto, senza un motivo vero, se non per rincorrere tua moglie con la barba che, si, amerai pure, ma è bruttissimo. Io invece sono in forma, l’odio mi mantiene giovane e addirittura, dopo che te ne sei andato, le rughe si sono fatte meno profonde. Ho lo sguardo più lucido, più volitivo. Tutto è ritornato come era prima di conoscerti.”
Sento che si muove nella casa, la sua fisionomia è cambiata, la pelle del naso adesso è meno distesa, le tre rughe sulla fronte sono più profonde e il labbro superiore è irrequieto. “Ho puntato un’altra volta su un cavallo zoppo”. Continuo “ ho sempre scelto uomini zoppi: brutti, sposati, problematici o con rapporti materni malati. Apparentemente è più facile gestirli. Sono meno autonomi e quindi più facilmente controllabili. Hanno più bisogno di essere considerati e quindi sono felici della nuova immagine che gli creo ad hoc. Poi la realtà torna a ribadirci che un cavallo zoppo non vincerà mai una gara. Te lo dico per ferirti. Per farti capire che per te non c’è gara, per me invece si!”
“Queste cose le dici per farmi stare sveglio a fissare la tua casa sulla collina mentre mi agito nel letto e sudo?” Il suo tono mi stupisce, ma non crollo. “Tu sudaticcio…. sei un’immagine fantastica. Per ora mi basta, questo: un esercizio, l’inizio di quello che passerete quando deciderò di venirvi a cercare. Sceglierò un momento perfetto, tu e tua moglie grassi e abbandonati in poltrona, assenti e svogliati. Tu hai appena ripulito la casa e preparato la cena, lui è appena rientrata dal suo squallido lavoro col quale vi mantenete; il suono del campanello sarà il preludio all’opera in due atti – noia e rassegnazione e non urlo e possessione – alla quale assisterete impotenti e rapiti!”
Risponde lentamente e sento che soppesa le parole come se un errore potesse scatenare un inferno fatale: “So che tutto il bene che mi vuoi non ti permetterà di rovinarmi la vita. Dopo di te rimane solo una spasmodica ricerca di pace, ho vissuto come sul bordo di una lastra di ghiaccio inclinata e adesso sono stanco: di te, delle tue minacce. Chiudiamola qui questa chiamata, per favore!”
Aspetto in silenzio. Voglio sentirti sudare e soffrire . “Tranquillo”, rispondo calmo “non ti amo più o amo un uomo morto, ciao”
La cornetta cade di sbieco, sbatte sul tavolo di plastica. Un suono sordo, tranquillo. La linea resterà occupata.
Il futuro porterà nuove consapevolezze, ma di una cosa sono certo: tu e la tua tranquillità dovete crescere nell’illusione che io sia davvero come credi. Solo così il boato sarà devastante. Non avrete mai una vita facile, già non l’avete. La reciproca conoscenza dei vostri veri istinti vi attanaglia e finirà per soffocare questa società di mutuo soccorso che è il vostro matrimonio. Annegherete nel mare dei sospetti e delle bugie. Io devo solo aspettare. Quando arriverà il crac forse raccoglierò i tuoi cocci e li getterò nel fiume nero in fondo alla valle, come hai sempre desiderato quando eri consapevole della tua nullità e inutilità. Ho capito cose nuove attraversandoti, una su tutte: sei un uomo dozzinale e squallido, una raccolta indifferenziata di non detti, monotonia e quotidianità. È anche per questo che non mi sentirai mai più.
La stagione che preferisco è da sempre l’autunno che ristora dopo il caldo dell’estate. I colori sono solo un dettaglio, il valore è la sensazione di fresco. Il corpo rilascia quell’idea di calore soffocante, il rossore della pelle svanisce pronto ad affrontare l’inizio del nuovo ciclo dopo la pausa estiva. Mi sento come quando ritorno dalla spiaggia in luglio, la sera. Il corpo rilascia il calore accumulato e i pensieri riprendono a scorrere leggeri e profondi, i ricordi assumono, spessore, forma e consistenza come il burro che levi dal fuoco. In autunno i colori sono definiti, l’aria meno incandescente non li deforma, l’occhio vede con maggiore nitidezza e trasmette idee chiare e definite. Proprio in una sera d’autunno mentre cercavo una coperta leggera mia nonna entrò nella stanza. Da quando era vedova aveva lasciato la campagna e viveva in un piccolo appartamento di proprietà di mia madre in centro città, dietro il duomo che sorride alla grande piazza. Esattamente da quell’appartamento partimmo per quell’avventura che ricordo, dopo 50 anni, con una esasperante nitidezza autunnale. I fiocchi di neve cadevano dietro quei vetri che iniziavano ad imprigionare i miei sogni, la voce di mia madre: “nevica, usciamo, camminiamo sotto la neve, diventiamo bianchi, invisibili, contiamo le impronte sulla strada, andiamo a piedi in campagna dai nonni”
Dissi subito “si” commosso per quella felicità che fa piangere e che non avrò mai più…………………….
Quella passeggiata ci unì in maniera indissolubile, mentre lasciavamo la strada nel centro si intravedeva il parco cittadino avvolto in una nube bianca, ma la nostra strada era molto chiara, senza nuvole, avevamo un obiettivo chiaro e preciso e forse solo per questo quel giorno è da sempre indimenticato, la neve era solo un pretesto. Lo ricordo in ogni momento di difficoltà, di sbandamento, sento ancora il calore protettivo del suo braccio sulla mia spalla, la cura con la quale manteneva l’ombrello per non farmi bagnare e soprattutto ricordo che dai nonni sarei stato al caldo, amato, desiderato, avrei visto i cuccioli, avrei ascoltato la voce del nonno così vera e capace di rassicurarmi, sensazione che non ho mai più provato. Appena arrivati ci accolsero sorrisi e complimenti mentre la neve vorticava con maggiore forza quasi a convincerci di avere compiuto l’impresa del secolo. Entrare in quella stanza calda al piano terra mi fece sentire quell’eroe che mai sono diventato, le parole mi esaltavano, gli abbracci mi elettrizzavano ed era tutto per niente, per una banale passeggiata sotto la neve; avrei dovuto capire allora che la vita fa parte della forza che abbiamo nelle mani e non è una serie di eventi da aspettare, una lista di appuntamenti da rispettare o saltare, vivere in ogni momento respirandolo è vivere, pensare ogni momento pensandolo è vivere, sentire sentendo, mangiare mangiando, camminare capendo che ogni albero è diverso dall’altro, che ogni foglia si muove in maniera diversa dalle altre e che cadrà in maniera diversa dalle altre. Vivere è riuscire a restare nell’oggi.
Quel giorno mia nonna davanti al televisore spento commentando una notizia mi disse: “sai che ognuno paga per i suoi errori, i bambini pagano quelli degli altri”. Pensai che fosse una strana esternazione, ma capii che la protezione della mamma non era un atto dovuto, ma una sua scelta precisa e la amai di più da allora e con minori conflitti. Capii che la sua severità non era gratuita per nessuno, in primis per lei, che tutto nella vita ha un costo e deve avere un obiettivo e che l’obiettivo sei tu a calibrarlo dopo averlo definito, cercato e che non è assolutamente certo che lo troverai, mentre è certo che devi cercarlo. E la vita iniziò a spiegarsi come poi riuscii a mettere nero su bianco………………….
“Tra un atto e l’altro la mia vita sospesa fra due non punti riflette limpida del mio cuore bizantino”
“la furia del narciso, centrifugo dialetto del futuro, stravolge il senso lineare della storia trafiggendo con lama obliqua l’asola del presente!”
“sono nato l’estate di un anno con tredici lune. Al tramonto le canne unite alle loro ombre graticolano l’argine che finisce sul ponte di barche che di colpo riflette il canneto alla luna; lo sguardo segue l’ombra acquosa che inghiotte spazio e tempo”
“il delirio narcisistico della notte esplode al tramonto, similitudine precisa del corso della vita. Come ti ho amato non sei più; oggi sento solo il ticchettio minaccioso dei tuoi cinquant’anni perduti“