31 ottobre senza anno

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mi sento così dopo due anni senza lo squillo personalizzato del tuo numero di telefono e il suono della tua voce.

sono rassegnato alla mancanza, al vuoto

scendono lacrime senza singhiozzi e senza motivo, anche una canzone allegra mi fa piangere

credo che non esista più l’allegria, non voglio più essere allegro, non mi interessa più

il nostro dolore ti tiene qui con me, non è ora di fare a meno di te e non voglio fare previsioni

almeno sei nel mio corpo, nella parte più segreta e profonda

resta lì piccolo uomo amato non abbastanza, bevi le mie lacrime e mangia il mio tempo, resta qui.

le colonie bolognesi


Seduto sul pontile di cemento del Sol e Mar, ad aprile inoltrato, sento l’ansia dentro che canta. Il cielo è pesante di nuvole veloci dal mare e l’unico spazio celeste è quello sopra la colonia abbandonata, un lungo elenco di costruzioni diverse fra loro per dimensioni, ma non per progetto e destinazione. Quegli edifici ancora solidi, ma disastrati guardano le onde da cent’anni, sempre lì attenti, immobili, nemiamici dei bagnanti; hanno le finestre scardinate a tratti, le tapparelle chiuse, i vetri rotti e le porte socchiuse, i cardini sono come dita rachitiche di vecchi ammiccanti, fermi, senza dignità, arrugginiti, spogli: porgono il benvenuto a chi entra a cercare sesso.
Come sono assurdi i gay, trovano tutti i peggiori posti per scambiare sesso, gratis or pay non cambia. La prima logica reazione è lo squallore, ma poi razionalmente diventa solo un abbraccio freddo, fra sconosciuti, ipocrita; guardare da lontano questa realtà mi fa sorridere, chi ne ha viste tante entra in silenzio, chi ne ha viste poche tarda sulla spiaggia guardandosi in giro, un senso di pericolo presunto per quelle impronte ansiose, quanti giri sul bagnasciuga, sul cemento della passeggiata con quel pulsare strano del quale conosci bene origine e fine.
Tutti mi guardano straniti, indecisi, con occhialoni scuri che sono il dettaglio essenziale del battere quotidiano, celano  la voglia, l’emozione, creano allure e permettono agli altri di capirti al volo, perché è vero che gli occhi possono mentire, ma le mani no, la fronte nemmeno e l’aspirazione sessuale mai!
Chi ha detto che la stupidità è femmina non conosce i gay e soprattutto conosceva poco e male le femmine. Anche io giro poco convinto, del tutto disinteressato agli speedy contact e di colpo sento un profumo piacevole, fresco di fiori che spuntano anche qui, fra macerie e  sabbia, sotto i piedi dei rapidi frequentatori.
Profumano come quelli dei campi carpigiani dove la natura scoppia nonostante noi e invade tutto col suo profumo. Quelle piccole stelle bianche e viola sul pavimento di sabbia col loro profumo mi riportano alla verità della vita, mi riportano al molo decrepito in cemento, mi fanno sedere e piangere dietro gli occhiali scuri. Qualche passante vede la mia bocca storta e va via spaventato dalla vita vera! Vorrei restare qui per sempre con questo venticello e le gambe appoggiate sulla sabbia, ci sto bene qui perché non pioverà, le persone lontane che camminano abbattono la solitudine, il mare non fa rumore e le piccole creste bianche sembrano i miei ricordi, leggeri e ripetitivi.
Mi sento solo, triste e per la prima volta sento che devo cambiare e cercare me stesso senza preoccuparmi delle naturali infelicità, ma cambiare per andare dove?
Sento ancora la tua mano sul braccio e capisco che ti aggrappi come un ragazzino che, caduto in un pozzo profondo, cerca un solido appiglio, ma io sono fragile, debole e inconsistente come la nebbia, non saprò starti accanto come dovrei nella malattia. Sono come questi vecchi edifici che guardano con distacco il mondo, pronti ad essere abbattuti o a crollare senza ansia e preveggenza.
Sto solo cercando scuse per scappare, anche le lacrime sono una scusa lo sento, il mare è una scusa, le colonie e il fastidio per il gay battuage sono una scusa; non c’entro niente, guardo e basta, da fuori, da lontano, da estraneo incolpevole, ma con giudizio, ho semplicemente perso il senso della vita? O questa è la vita vera? Noi siamo piccoli straccetti nel mondo e dentro siamo invece il mondo, fuori siamo nani e dentro eroi? O siamo solo i famosi acrobati, ma allora il circo dove è?
Ricordo bene quando l’amica comune mi informò della tuo cancro osseo, incurabile, intenibile, disobbediente,  ingestibile, imbattibile; ricordo anche la delusione per la mia esclusione. Come avevi potuto tacermi una tale notizia? Oppure hai capito quanto sono inconsistente perché  tu mi hai sempre guardato con il cuore.
Sono stupefatto dalla facilità con la quale ci si può guardare col cuore, mentre io vedo solo con gli occhi.
Sono sempre così duro con me stesso, ma la superbia mi ha salvaguardato nel tempo, io non mi sono mai mischiato con le pulsioni, ma non riesco più ad andare avanti così, che sia l’ora del conto? E il dolore è la vera unità di misura per la vita, cioè più soffri e più sei vero? Non è così per forza, ma questa via si avvicina alla verità; ci sono persone così attratte dalla vita vera che pagano,  per soffrire caldo  e sete nel deserto o nella foresta amazzonica, ci sono persone che pagano per andare a soffrire in giro per il mondo in letti sudici, su treni scassati, in letti pidocchiosi e asciugamani schifosi, mangiano panini disgustosi e pietanze improbabili solo perché così dimostrano di esserci stati, nella vita vera.
Lo spessore è un metro importante, niente di nuovo allora se desidero vedere e toccare un “disagio” reale, per aiutarmi a calibrare lo spessore e capire veramente che ci sono vari livelli in tutto, anche nel mio amore per te, amica.

Il supervisore imperfetto

Diciamo che non avrei mai scritto, il supervisore imperfetto, per un motivo preciso: mettere nero su bianco una storia significa darle una fine.

Non significa che gli anni trascorsi fra il 1977 e il 2023 siano solo una parentesi chiusa, ma uno stimolo a ripensare a come ho potuto resistere così a lungo ad una vita che potrei definire con un flash: immaginati sull’orlo inclinato di un precipizio ghiacciato mentre corri con altissimi tacchi a spillo 24 ore su 24!

Ricordo chiaramente piazzetta Bossi a Milano, sede della società Explorer. Ricordo bene il disagio che mi circondava quando la responsabile field di allora mi spiegava quali sarebbero state le mie mansioni da supervisore: dentro pensavo al coraggio incosciente che mi ha sempre guidato, alle difficoltà, a come risolvere o aggirare gli ostacoli. Pensavo a tutto e a niente, ma ero pronto a mettermi alla guida dello stuolo di “casalinghe annoiate” che rappresentavano la forza lavoro di allora, le intervistatrici! Almeno potevo dire di avercela fatta, io unico non casalingo annoiato del gruppo ero stato scelto.

Da allora la forza lavoro è cambiata, oggi ci sono professionisti al posto delle casalinghe, ma il meccanismo è sempre lo stesso: dal field arriva la sensazione di essere considerato “un’ indispensabile risorsa”, di fare parte integrante dell’azienda, di essere il vero responsabile del buon andamento del lavoro – tu devi ribaltare queste certezze sulla rete degli intervistatori. Se mi avessero spiegato tutto ciò in piazzetta Bossi probabilmente avrei fatto il commesso o il cassiere, oppure l? annunciatore dei treni in partenza (reale mio antico sogno peraltro!).

Era anche l’unico ambiente lavorativo nel quale nessuno “lavorava per necessità”, parlare di soldi faceva volgare, si collaborava per noia, “per le spesucce settimanali”, per un viaggetto o, ancora meglio per fare un favore all’istituto o a me e “il bene” che mi dichiaravano tutti, lo sentivo chiaramente trasudare ad ogni convocazione, specialmente a fronte di lavori…..diciamo poco “belli”.

Diciamo che oggi i toni sono cambiati, ma i palloni gonfiati nella rete di intervistatori abbondano come in nessun altro, sono tutti geni incompresi, cantanti part time, attori falliti, studenti incapaci, pieni di richieste assurde e che necessitano di tutta l’attenzione del mondo; compito del supervisore è dare la giusta attenzione ad ognuno al momento giusto, tipo orchestra fatta di soli solisti. Così si portano a casa lavori incredibilmente complicati, la parola giusta, l’attenzione corretta e tutti corrono come i criceti sulla ruota. Per il supervisore è dura doversi confrontare con personaggi che nella vita normale nemmeno avrei mai incontrato, ma il settore non prevede obblighi per alcuno, la sola persuasione serve, i siparietti, la gioia nel sentirsi, la ruffianeria regna sovrana fra supervisore e rete di intervistatori!

Il supervisore è un male necessario sia per gli intervistatori che per gli istituti, è tipo il dischetto intervertebrale continuamente e improvvisamente sottoposto a stress: sei davanti alla tv, squilla il telefono e la tragedia corre sul filo………..”ha chiamato il cliente e dice che l’intervistatrice non è sul posto di lavoro……..”  che fare? Che dire? Chi chiamare? Chi convincere a correre a 200 km da casa per recuperare la figuraccia? Il cervello del supervisore non si spegne mai, deve muoversi, cercare, capire, ascoltare, recuperare col tono giusto tutti gli interlocutori.

Per questo odio ancora il lunedì che viene dopo la pace del weekend, odio il telefono, odio whatsapp, odio le e-mail; solo notizie negative perché gli istituti chiamano solo per gli aspetti negativi che tu devi risolvere, mai una volta per dire che va tutto bene, mai!

Il field interno degli istituti di ricerca rappresenta la soluzione a tutti i mali, supervisori e intervistatori sono il tramite per risolvere tutti i mali, in tutte le stagioni e per qualsiasi aspetto: oggi sei il leader di un team (negli istituti di ricerca si parla prevalentemente inglese, specialmente per definire ruoli altrimenti indefinibili!!!!), quindi devi affrontare interviste complicatissime a top manager di aziende con oltre 5mila dipendenti, domani sei una casalinga esaurita che cerca tutti i tipi di assorbenti e salva slip per comporre uno scaffale che esiste solo nella mente di un alieno, poi diventi un fotografo professionista perché si devono fare foto perfette col grand’angolo pur avendo a disposizione un normale cellulare, poi ci si trasforma in un persuadente figuro che cerca di entrare in casa di sconosciuti per misurare gli elettrodomestici con un metro di carta che diventa un essenziale “polliciometro”. Il top è che devi convincere gli intervistati che è capitata loro una fortuna quando il caso li ha estratti dalle liste elettorali, devono essere felici di stare ore davanti ad un computer che propina domande a raffica.

Ogni lavoro è un “delirio” perché nelle ricerche di mercato non esistono percorsi, domande facili e logiche, tutto deve essere complicato (forse per dare un senso) e quindi tu, supervisore/intervistatore devi sapere risolvere e verificare sul campo idee o progetti di persone che non hanno mai fatto un’intervista in vita loro o non hanno mai visto un “campo”.

Sono poche le esperienze che ricordo con gioia, mentre sono tantissime quelle che mi hanno divertito per svariate ragioni. Tra le poche esperienze gradevoli c’è senza ombra di dubbio l’organizzazione delle giurie del festival canoro di Sanremo, la scelta dei giurati, il viaggio con loro in pullman verso il teatro Ariston; di quella esperienza ricordo soprattutto le colleghe come se fosse oggi, l’allegria, la stanchezza, l’emozione del teatro più famoso d’Italia; anche se alla fine gli aspetti negativi superavano quelli attivi restava la gioia e questo mi ha chiarito che se vuoi una gioia te la devi cercare e persino creare. Così sono andato avanti tanti anni, cercando momenti lieti in un lavoro che non regala molte soddisfazioni, perlomeno alla rete sul campo.

A distanza di due mesi dal mio pensionamento volontario sento ancora lo squillo del telefono, seppure con nuova suoneria, come un nemico; la domenica sera mi addormento male, mi sveglio il lunedì di pessimo umore e adoro il venerdì pomeriggio perché sancisce la fine della settimana di guerriglia.

Ogni lunedì rappresenta un inizio faticoso e problematico, così come ogni primo dell’anno e via dicendo: questa visione abbastanza drammatica non è solo legata al lavoro di supervisore, ma anche! Credo che l’imperfezione sia il leit motiv che ha fatto funzionare tutto, il senso di non riuscire mai a fare le cose al meglio è la chiave che ha creato una rete di collaboratori in gamba e affidabili.

Ad oggi fatico ad interfacciarmi con gli interlocutori “lavorativi” forse perché è proprio “l’ imperfezione” che è venuta a mancare che ha lasciato un vuoto difficile da colmare; un grande cambiamento  che col tempo forse arriverà, che dire?

È colpa tua ……..

se sono qui ad aspettarti già sapendo che non arriverai

se non arriverai

se non mi vuoi abbastanza

se non mi ami veramente, sinceramente e completamente

se non esisti

se sei solo un’idea, un desiderio, una voglia di non essere più solo

non è colpa mia se sono solo, è colpa tua, tua

è colpa tua se ti darò colpe per il mio malessere, tu non sei venuto e io sono solo, quindi colpa tua se sono infelice

Voglio solo compagnia e tu non esisti, per colpa tua sono triste e solo.

Ho iniziato a vedere alcune teste di persone vuote con occhi cavi scoppiare per scherzo, poi sono scoppiate per davvero; quindi ho immaginato che non scoppiassero più e questa finzione mi ha salvato.

Ho scelto di vivere solo anche se mi ha lacerato il senso di sconfitta della condanna alla solitudine, la depressione mi ha chiarito che una scelta vale per il semplice fatto di essere una scelta, senza un ambiente costruito, senza colpa, solo così potevo vivere bene

la solitudine è un passo fuori dal coro, fuori da tutti i vangeli

dentro di me.

Sempre

Provochi il senso di estraneità ricreando l’invisibile

E qui tutta l’esistenza intera che è poi solo nostalgia.

Dormivo felice con la luna tra i capelli.

Patetica nostalgia, dignitoso dolore. Miasmi.

La mia personalità si stacca da me come una crosta ammuffita che mi ricorda di un tempo fatto di gioia e anarchia.

neve

Neve, imbianchi la coscienza

Io oggi sono appena nato

Saremo piccoli assieme

Andremo all’asilo

Avremo buste piene di caramelle

Faremo i giochi

Saliremo sui trampoli

Piano piano il mondo si allungherà

Crescendo balleremo il mondo in un girotondo

Appenderemo a festa girandole colorate e festoni e cordoni di luci rosa e rosse

Ci sarà la musica per tutte le contrade del mio cuore

E all’Orizzonte Tramonti rossi e albe senza fine.

il corso di scrittura creativa

Bologna, 16 marzo 2023

Quando mi iscrissi al corso di scrittura creativa non mi aspettavo qualcosa di particolare. Durante la prima lezione ho ascoltato e osservato un’umanità piuttosto variegata e disomogenea, purtroppo la mia struttura mentale da analista comportamentale si è innescata in automatico e quasi me ne scuso, un’analisi non richiesta è certamente un’analisi poco gradita. Comunque avevo capito che ogni cambiamento è giovinezza e arrendersi significa chiudersi nella scatola del tempo che passa veloce, il caleidoscopio degli anni si ferma solo cambiando.

Quindi eccolo il piccolo mondo chiuso in una stanza senza finestre, mai mi sono sentito così “pesce tropicale” circondato da “neri e silenziosi” che osservano e forse ascoltano gli altri, i “gialli e ciarlieri” che trovano nei corsi un modo per parlarsi, per esplicitare l’infelicità che li attanaglia,  i “blu navigati” che frequentano i corsi in primis per sciorinare le loro opere decantando una miriade infinita di insuccessi, gli “arancioni alternativi” che sono qui per caso e sono stati, forse, attratti da qualcosa di indefinito, di indecifrato, ma di sicuro profondissimo; i “bianchi folgorati” dalla loro immensa capacità indefinibile, ma sicuramente immensa!

La classificazione degli altri mi rende la vita più semplice, mi fa capire chi sono quelli a me più simili e quali sono invece lontanissimi, rende più oliate le procedure di avvicinamento e di raggruppamento aldilà degli inziali sorrisi circostanziali, nel caso io comunque scelgo i gialli e ciarlieri senza ombra di dubbio. Il momento che unisce e cattura tutti arriva improvviso quando si materializza il “compito a casa”; si deve scegliere una foto e ricamare un racconto, anche breve, ma un racconto stimolato ed ispirato da e ad una foto qualsiasi e non per forza nostra (io amo poco i racconti perché in loro non si sviluppa la complicità necessaria a crearmi interesse; il racconto non mi è complice! Inoltre lo vivo come frutto di chi ha poco da dire o sceglie di dire poco, ma questo è solo uno dei miei tanti limiti probabilmente, un limite certo alla mia concezione eroica della vita, un libro è tale solo se di almeno mille pagine, gonfio di dolore, malessere e lacrime! Magari lo scrittore ha pure la tisi ed è certamente poverissimo, solo attraverso la vera sofferenza l’uomo tira fuori le sue reali profondità!).

Apparentemente quindi imbastire un racconto sarà molto semplice, troppo facile e piuttosto banale come inizio. Il tempo scorre, la lezione finisce e ognuno la conclude coerentemente alle sue aspettative, al suo personale modo di rapportarsi; molte delle mie classificazioni sono corrette, ma come sempre, non così rigide come le vorrei, la vita come sempre sorprende in ogni suo aspetto, anche minimo.

Esco ed accantono il tutto dedicandomi alle sole rogne del vivere quotidiano e solo due sere dopo mi avvicino alla scatola delle fotografie per scegliere quella che sarà la sorgente del mio compito; guardo quella scatola bianca, liscia, non facile da aprire, la afferro e mi siedo.

Io e la scatola, una sera, le luci dei colli intorno a Sasso  Marconi illuminano le ville immerse nel silenzio, buie, un po’ ostili. La apro a fatica prefigurando un divertente viaggio nel passato, ma capisco dalla prima fotografia che non lo sarà; mi assale una tristezza strana, una morsa di tempo andato, non solo e semplice passato, ma andato via; passano i visi e i luoghi della mia vita a ribadire che la vita è solo un breve passaggio che va via senza lasciare troppo; adesso mi è chiaro perché ho scelto una scatola difficile da aprire, per aprirla il meno possibile, santo inconscio che spesso ci salva dal conscio che secondo noi umani dovrebbe addirittura essere l’ossatura portante della vita solo per relegare le emozioni al controllo da controllofili, spesso, mal celati quali siamo!

Tra tutte le foto così intime, così reali, così evocative, così mie, non riesco a scegliere.  Ogni foto scatena ricordi pieni di rewind, f.f., pause, play, stop che si susseguono furiosi mentre sfoglio i piccoli album digitando i fragili tasti del mangiacassette, non so più se penso alla gita al mare o al mio amico che non ho più visto, tutto si mescola ed emerge un fiume unico, la vita, la mia vita che non è ancorabile ai singoli ricordi tasto pause, ma tra i ricordi scorre e si snoda, spesso porta al futuro con rinnovata energia f.f., a volte si ferma – tasto stop – e lascia un rivolo al quale i superstiti si avvicinano, vi immergono le mani e vanno avanti, capisco quanto vero sia che l’esperienza non si accumula, che ogni giorno è una nuova sfida, mi sento anche banale – play, ma meno in pericolo perché dai ricordi ci si può anche difendere, tasto stop!

Improvvisa la cartolina col mazzo di stelle alpine rivolte al sole del mattino tiepido – nostalgia, di un colore così nitido e trasparente che ti permette di scorgere lontano il confine svizzero, i petali grassi si aprono alla luce quasi sforzandosi di essere in prima fila per avere il sole migliore, i gambi si stirano e diventano lunghi e sottili per avvicinarsi il più possibile al calore; le rocce dalle quali spuntano faticosamente sembrano vivere e fare parte di un impianto radicale unico, ingegnoso e spaventoso al tempo stesso, come lo sono i ricordi che si mescolano nella mia vita; sono di materie diverse che unendosi disegnano un sentierino circondato da macchie di colori a ribadire l’importanza delle differenze, della visione d’insieme che devo avere, dei dettagli che devo tralasciare e delle classificazioni inutili che devo smettere di fare; dovrei aprirmi alla vita di più e considerare gli altri anche come ricordi, foglie grasse, pregne di senso da capire. Le stelle alpine hanno una vita molto dura, è difficile superare l’inverno freddo e pieno di una neve tipica delle montagne altissime; i petali quasi si scardinano per dare evidenza al cuore della pianta, giallo, peloso che racchiude il senso della vita, il seme che farà sbocciare di nuovo. Quindi  i ricordi sono forse il cuore dell’intimità? Il seme che fa sbocciare ogni giorno una ritrovata energia? Il coraggio di chi va avanti a prescindere? E la luce ha davvero il potere di rinvigorirmi? La nostalgia vincerà sulla frenesia? Il punto di partenza obbligatorio dal quale sfuggo da sempre può essere bloccato da una scatola difficile da aprire?

Si a tutte le domande.

Tutta l’attenzione del mondo

Bologna, 3.3.2023

La solitudine è un luogo insopportabile, una dimensione inaccettabile, ti schiaccia, ti suggerisce di fuggire, di cercarti un hobby, un ragazzo che ti ama, nuove situazioni, di ucciderti, ma poi da morto non sarai ancora più solo? Se potessi rispondermi sarei già morto, avrei sistemato le cose sospese, smetterei di controllare anche le maree, imboccherei una lunga strada senza ritorno, volentieri.

Ho sempre amato le ferrovie e molto meno i treni perché ad un certo punto, magari in ritardo, ma arrivano da qualche parte; le strade ferrate con le traversine, i chiodi, i binari e le bianche massicciate si svolgono come cicatrici sulla terra, si sviluppano eterne, immutabili come il dolore di una ferita.

La bellezza delle cicatrici sta nel ricordo del dolore che con il passare del tempo diventa una coccola e un piacere intimo, le sofferenze, quando passano, diventano gioie e avventure da raccontare agli altri; le malattie mortali scampate, i catastrofici incidenti stradali, i rischi di annegamento fanno diventare più furbo e ricco di esperienza colui che li supera e fanno diventare alunni silenziosi e bambocci inesperti coloro che ascoltano; l’ho capito guardando la ferrovia dall’alto della collina, quell’immobile disegno bianco che si staglia nel verde dei campi mescolato al giallo del tarassaco; ho visto la ferita provocata dagli scavi e la successiva cicatrice riparatrice fatta di sassi, ferro e legno e di colpo il dolore si materializza e di colpo il malessere va via, sempre meno nemico.

Probabilmente non esiste la gioia, ma la serenità si, la rivendico; quel giorno tiepido ero sereno guardando la ferrovia nel verde, c’erano solo case lontane, verde e giallo, azzurro, all’ombra sottile delle dita di Hallah sulla collina, non ci sono nemmeno fastidiosi insetti e l’erba non macchia; non esistono ancora macchie nella mia vita e questo sapore consapevole è la mia forza ancora oggi, la mia capacità di riprendere fiato e forza la sera, da solo, in casa. Quel sapore di pace mi accompagna da quando ho smesso di cercare la felicità a tutti i costi anche in luoghi esotici e lontani.

Quel pomeriggio inconsapevole c’era la svolta, al posto della gita in bicicletta con Roberto e Riccardo sono rimasto a farmi aggredire dalla vita: la pigrizia è vita e ti aiuta a capire, non puoi correre o fare palestra perché il sudore distoglie l’attenzione, puoi capire solo restando fermo a guardare, con  la giusta temperatura, disteso comodo; per capire ci devi mettere tutta l’attenzione del mondo.

è nevicato…

Carpi, 9 gennaio

Comincia più o meno così il rapporto epistolare; il Daniele nostalgico scrive a quello frenetico che spesso non riesce o non può rispondere. Entrambi scrivono per riossigenare i ricordi che diventano sempre meno definiti col passare degli anni, effetto della vecchiaia o dell’indulgenza non so, ma tutto tende ad essere meno litigioso, meno deciso, meno forte, meno nitido, il grigio diventa il colore preferito come l’autunno la stagione diletta, quella dei pensieri più profondi; solo Narciso resta giovane e porta solo cattivi pensieri e pessimi consigli.

Niente è più struggente della neve che si scioglie. Ti si stringe il cuore. Capisci di colpo che la vita va via, che il tempo per tutte le cose finisce; anche Stefano, il cinico, ha un guizzo di tristezza davanti alla neve che si scioglie. Capisce che stanno succedendo cose che cambieranno la nostra vita senza biglietto di ritorno, che nonostante la nostra volontà saremo costretti a cambiare, a decidere, a scegliere nuove situazioni, nuovi ambiti, magari migliori, ma diversi; solo biglietti di sola andata!

La neve rappresenta a modo suo il ciclo della  vita: arriva desiderata, inattesa, sempre stupefacente, cade e copre tutto come il bambino nella fase accentratrice, poi il freddo la trasforma in ghiaccio, il gelo degli sguardi spesso delusi dei genitori verso i figli; poi la neve inizia a sporcarsi come la voglia di vivere dell’adolescente; restano poi macchie di neve sporca qua e là, come i fuggenti attimi di felicità, sempre più rari e ancor meno frequenti. Poi tutto si scioglie e resta solo il bagnato di lacrime nostalgiche per quella neve che ha cambiato paesaggi e prospettive inutilmente.

Cresce la frenesia di vivere mentre cala l’aspettativa di vita – siamo vecchi in un mondo nel quale l’esperienza non si accumula e quindi per sempre sprovveduti, fragili, incerti, impauriti.

Sono solo i genitori incapaci che pretendono l’amore incondizionato dai propri figli solo perché li hanno voluti e desiderati; sinceramente avrei voluto scegliere chi amare e forse oggi potrei amare a mia volta.

Sinceramente mi aspettavo una vita diversa, senza averla mai sognata, né strutturata, né auspicata, me l’aspettavo e basta, come naturale conseguenza dell’essere nato in un anno importante; ero certo che avrei avuto una vita “diversa”, ma senza sapere in cosa sarebbe stata diversa e diversa in che cosa e da cosa; ero certo che sarebbe stata non dico favolosa, né iper divertente, ma nemmeno così solita, così già scritta, in questa vita sono intervenuto il meno possibile, ho lasciato fare le scelte principali agli altri, ho guardato altri decidere, andare, tornare restando sempre lì a guardare, a vivere le vite degli altri senza saperlo, attaccandomi alle loro esperienze, criticandole, approvandole, ma il meno possibile e solo se costretto; in fondo preferisco viaggiare che arrivare. Ho sempre cercato le soluzioni più semplici, più comode e più remunerative; mi sono  esposto il meno possibile e ho avuto solo briciole emozionali per questo, ho vissuto le felicità e le infelicità degli altri senza mai cercare il primo piano da splendido ascoltatore quale sono – non sono riuscito ad amare davvero e nessuno mi ha mai amato davvero, a parte una pletora di disperati che preferivano semplicemente me al niente garantito. Non so nemmeno quando ho iniziato ad aspettarmi qualcosa, oggi mi accorgo che ho solo sempre aspettato e sognato, ma da quale preciso momento non saprei .

Ogni giorno uscire di casa sperando di trovare un uomo che mi amerà sinceramente tutta la vita, vestirmi per lui, mettere l’occhiale giusto per lui, profumo e deodorante buono, sistemare la casa e rifare il letto perché, rientrando con lui, non creda che io sia uno sciattone, disordinato e inaffidabile e quindi non in grado di amarlo come lui mi amerà; anche il deodorante per ambienti scelto pensando al suo odorato perfetto abituato al benessere, al piacere, a me insomma. Un uomo che potrei incontrare ovunque e che non ho mai nemmeno visto da lontano. Oggi questo sogno mi ha abbandonato, ma mai del tutto, è sempre latente, insidioso, a volte mi incatena, non riesco ad essere quello che sono fino in fondo perché mai vorrei che lui mi vedesse fuori posto o per quello che veramente mi sento. Monica voglio semplicemente ed ancora ribadire che il secondo amore non si è ancora visto, ma il tempo sì che si è visto.

è colpa tua

….. se sono qui ad aspettarti pur sapendo che non arriverai?

È colpa tua se non arriverai perché non mi vuoi abbastanza, non mi ami veramente, sinceramente, completamente

È colpa tua se non esisti, se sei solo una mia idea, un desiderio, una voglia di non essere solo, non è colpa mia se sono solo, è colpa tua, solo tua …

È colpa tua la colpe del mio malessere, tu non sei venuto e io sono solo, quindi sono infelice per colpa tua

Voglio solo compagnia e tu non esisti, per colpa tua sono triste e solo

Non sono solo, sono con la tua colpa.

Mi sento così da quando ci siamo staccati stanchi ed esausti; diciamo che il tuo vuoto che mi hai trasmesso, è pieno del tuo solito vuoto, vuoto su vuoto; vuoto contro vuoto.

Il nulla che porta la pace non è mai arrivato. Non mi sono mai abituato ad un’idea di vita pianificata, ad un’idea abitudinaria di vita, ad un’idea di vita forse. Mi sento abbastanza confuso da ricordi più o meno lontani e vaghi, più o meno chiaro scuri,  in fondo a furia di voltare pagina finisce il libro!

Le pieghe dell’esistenza ci hanno separato come quelle dei tessuti separano fra loro le valli della ruvidezza prima della stiratura; sensazione di abbandono che subentra all’abitudine al vuoto, piega/liscio/piega/liscio e poi tutto liscio, morbido come il senso di abbandono, come la solitudine che è anche gioia, poi tristezza, ossessione, malessere, nostalgia, frenesia, ho già nostalgia del futuro frenetico.