Mi sento soffocare dal bene che mi circonda da sempre. È una specie di cappa che mi ha riempito di debiti, di doveri, di pensieri di riconoscenza, di ricatti, di dipendenze e quindi di dolore. Il bene fa del male. Del resto non ho potuto scegliere a fronte della mia indecisione costante per tutte le scelte, le amicizie, il mio atteggiamento supino alla vita; mi sono sempre fatto voler bene per ignavia e non per scelta. Non ho fatto mai nulla per spingere qualcuno a volermi bene, ho semplicemente accettato il bisogno degli altri di volere bene a qualcuno. Sono stato il riempitivo di vite vuote, il desiderio di vite sbagliate, il ricordo di vite lontane e non sono mai stato io, alla fine. Sono stato trattato come un cucciolo tutta la vita perché non sono mai cresciuto davvero, sono diventato vecchio solo nell’involucro, ma non nella sostanza. Ancora oggi mi capita di sentire un fremito profondo, un brividino, una gioia saettante, quando qualcuno dice di volermi bene o mi apprezza solamente. Continuo a farmi voler bene per quello che rappresento di volta in volta davanti al pubblico sempre differente e che mai si mescola per ovvi motivi; emergerebbero sfaccettature che forse non mi farebbero poi essere benvoluto del tutto.
La memoria è la radice del mio tempo, ho vissuto a Roma come se fosse una grande Carpi, a Bologna ho ricostruito i viali alberati e i portici; in realtà non mi sono mai mosso da Carpi e questo ha fatto la differenza fra noi compagni di scuola, chi ha cercato una liberazione dalla provincia l’ha riproposta in città, chi cercava la mondanità ha riprodotto quella provinciale, ma in locali più ampi, io cercavo solo aria e ne ho trovata davvero tanta. Ho imparato a respirare a pieni polmoni, a muovermi senza orari prefissati, a mangiare anche fuori orario, la libertà ho imparato a viverla da dentro, vivere da diverso con i diversi mi ha reso libero, ho imparato da Marcella che si può essere liberi costruendo la propria libertà diventando donna a 40 anni, non tutto deve accadere in maniera repentina, perché la vera libertà è solo un modo di vedere le cose.
Sono scappato da Carpi trentacinque anni fa, ma sono sempre rimasto in quelle strade, in quei fossi, in quei fiumi, in quei campi; ogni albero racconta storie che potrebbero riguardarmi, spiega quei flash della memoria; sembra ieri, tutta la vita sembra ieri e potrei raccontarla in poche parole; tante fughe per poche parole?
Poi ho regolato l’uso dei tasti del registratore sul nastro della mia vita, per la nostalgia pigio sempre lentamente rewind e torno alle cose del passato, per la frenesia pause fa riprendere il fiato, per il dolore basta premere con fretta il fast forward così passa velocemente, per la noia spingo play e passo ad altro momento.
Ho replicato la vita solita in contesti diversi, diciamo che ho cambiato il poster dello sfondo, ma sono sempre stato in quella piazza rettangolare attorno alla quale ruota tutta Carpi, solo nominarla fa scorrere i ricordi delle sere d’estate.
Attendevo Monica e insieme andavamo in bicicletta verso piazza dei Martiri con una camicia nuova di lino che respira insieme alla tua pelle, ma senza stringere e ogni sera speravo di trovare l’amore al bar Dorando. Passavamo davanti al cimitero, conosco ogni buca di quel marciapiede. Poi a destra verso san Francesco, piazzetta, Marina e il suo palazzo e poi la piazza piena di carpigiani chiassosi, ma anche no. Entravo nella piazza in silenzio con una leggera ansia. Cercavo solo un minimo di attenzione mentre ridevo vuoto di attenzioni. Mi capitava di osservare Monica e spesso mi tornava in mente quel concerto di Dalla e Ron. Monica che si interroga a proposito dei “poveri” cantanti costretti a cantare davanti a folle ululanti solo per portare a casa la pagnotta e poi c’è pure gente che li osanna e magari li invidia, mi sono sentito subito stupido per non avere capito subito che la scimmia sul ramo più alto è sempre quella che mostra più il culo, Marina ci chiede se fra due onde c’è vita, Lia ride e pensa che la vita è proprio strana, quattro come noi insieme, che dire e che fare se non volerci bene per quello che siamo e basta?
Non sono mai riuscito a scindere la nostalgia dalla frenesia. Nemmeno da bambino ci riuscivo, preferivo stare immobile a cercare di scambiare la frenesia con la paura, che passa accendendo una luce. Del resto la nostalgia è un passatempo, uno svago, la frenesia è un obbligo, un lavoro. Oggi, mentre la macchina scorre sull’autostrada del Brennero, capisco che provo solamente nostalgia per Carpi e per la sua aria immobile, l’aria della mia gioventù.
Anche il sole sembra nostalgico a quest’ora, l’aria fresca del mattino, pulita, tersa, fresca contro l’aria greve, calda, inquinata, pesante della sera, di nuovo nostalgia “si torna indietro col tasto rewind – frenesia, si corre avanti col tasto fast forward – speranza”. Ho scoperto il registratore nella mia mente quando sono riuscito a fermare il tempo o ad accelerarlo, dipende solo dal momento, l’estraneazione e la negazione sono i lubrificanti per le bobine, non esistono limbi, circonvoluzioni cerebrali, ma solo bobine, tecnologia, freddo, solitudine, anatomia, fisiologia e biochimica.
La frenesia nei muscoli delle gambe che li fa pulsare sotto la pelle immobile, tesa, gelata: fuori la nostalgia che copre, confonde, conforta, dentro solo frenesia da tenere nascosta, da confondere, da non razionalizzare.
Fra Campogalliano e Carpi si snodano campi verdissimi mescolati a case rurali, tutto è nitido, chiaro e anche dentro sento una chiarezza nuova e consapevole. I dettagli che vedo sono una serie di diapositive; clic su clic, luoghi, facce, situazioni, dettagli, fughe, baci, addii. Tutto veloce, automatico.
Sono nato a Carpi il 21 nell’estate di un anno con tredici lune, Daniel Bovet vince il nobel per la medicina, il 1957. Da grande sarò un grande quindi. Non avevo mai pensato di andarmene da qui, ma poi ho immaginato una vita diversa, da grande e poi ho sognato città grandi; avrei avuto almeno qualcosa di grande nella vita.
Se penso ai miei ricordi oggi riesco a vederli più precisi, dai contorni definibili, ma soprattutto riesco a contestualizzarli nel giusto luogo e nel tempo corretto – sono diventati veri ricordi e non nebbiose sensazioni di un uomo invecchiato. Il passato non è più un mix di immagini mescolate dal tempo o una tavolozza senza precisi contorni. L’imprecisione ha fatto crescere in me l’idea di un passato pieno di ferite vere o presunte, pieno di ombre e nebbie, probabilmente i ricordi presunti mi hanno tutelato da quelli veri, la leggerezza dal dolore, le risate dal pianto . Forte di questo cambiamento, in un tranquillo pomeriggio primaverile, mi avvicino alla scatola delle fotografie per cercare di capire se una foto vera riporterà realmente coerenza ai ricordi. Il divano nero non è accogliente come al solito mentre guardo quella scatola bianca, liscia, certamente difficile da aprire, la giro, la guardo da sotto, ai lati; le cuciture del cartone sono precise e molto curate, la mano che scorre su tutta la superfice le sente come ferite antiche, cicatrici mai rimarginate; cerco di accomodarmi meglio fra i cuscini di velluto spento, ma continua il disagio. Io e la scatola in attesa e un po’ ostili. La apro a fatica mentre auspico un viaggio ludico nel passato, ma capisco dalla prima fotografia che non lo sarà; mi assale una sensazione conosciuta, una sorta di agitazione che arriva quando faccio qualche cosa controvoglia, poi cade il coperchio e il rumore di altro tempo andato mi stupisce, non solo e semplice passato, ma tempo andato via, per sempre. Continuo a muovere le foto con disordine perché mi sembra di non capire; le dita scavano fra le foto, le spostano, le uniscono, le separano, passano i visi e i luoghi della mia vita, oggi innaturali come se fossero set allestiti solo per essere fotografati, una sorta di calendario finto, fermo; adesso è chiaro, ho scelto una scatola così difficile da aprire, proprio per aprirla il meno possibile. Tra tutte le foto così intime, ma adesso così reali, così evocative, così mie, non riesco a scegliere dove e se fermarmi. Tutto si mescola ed emerge un fiume unico di ricordi, la mia vita che non è più ancorabile a singoli eventi. Capisco subito quanto vero sia che l’esperienza non si accumula. Quelle foto rappresentano anche amori sbagliati, viaggi errati, momenti orrendi; tutte cose che continuo a rifare. Quindi i ricordi, mondati dalle fantasticherie, sono il cuore vero della mia intimità, il punto di partenza reale dal quale cerco di sfuggire solo per continuare a sognare?
Di colpo mi viene da pensare alla luce accecante dei pomeriggi carpigiani, senza aria, io sono nato lì in quel paese che si culla fra la nebbia e l’afa, senza vie di mezzo, come la volontà dei suoi abitanti. Gente di ferro, poco sensibile , ma con le braccia capaci di una stretta che sa di terra, di sicurezza, di certezze. Mia madre alta e pallida, occhi cerulei e poco profondi, grande lavoratrice. Mi lasciava tutti i pomeriggi dalla zia con l’edicola dopo la fine delle scuole. Io le facevo compagnia, lei mi badava. Mio padre, finite o no le scuole era comunque molto impegnato, dopo pranzo il bar e poi a seguire il bocciodromo, fino a sera, poi la cena e di nuovo il bocciodromo fino a tardi, il che lo costringeva a letto il mattino seguente e così via. Un uomo bello e sfuggente, incapace di cattiverie, con un’intelligenza pacata e bloccata dalla sua idea di saggezza. Aveva capelli neri e folti che ho sempre sognato di ereditare, ho avuto solo i suoi occhi verdi. Era spesso distante dalla realtà da quando, partigiano, aveva visto morire il fratello Francesco al suo posto; erano appostati in un fiume, sull’argine, hanno sentito degli spari. Qualcuno doveva controllare da dove venivano i tedeschi – mio padre ha esitato, suo fratello no, colpito, ucciso, morto banalmente sul colpo, tutti gli altri in fuga tra i campi di mais alto e verde, per tutti un riparo, per Francesco rimane il cippo grigio sull’argine con fiori di plastica rosa molto rovinati. Li ricordo perfettamente perché ci passavo con mio padre; lui ci passa spesso e preferibilmente da solo quindi lo so anche se tace, quel peso è rimasto sulle nostre vite come il quadro di zio Francesco appeso nella saletta, sopra i divani verdi di velluto spento.
Quindi stavo nel calore tremendo dell’edicola con la porta chiusa per evitare che qualche malintenzionato entrasse a rubare l’incasso; zia Bice continuava a ripassarsi le labbra con un tubicino nero che lasciava una scia rosa acceso, era convinta che spargere il rossetto oltre il bordo delle labbra sottilissime, le allargasse; dopo il rossetto si tranquillizzava, lo sguardo diventava meno acceso e la voce più delicata, oggi capisco che si sentiva solamente più bella e desiderabile. Capelli biondo cenere, occhi stupiti o stupidi, mai capito! Vestiva da signora bene e non amava ballare il liscio mentre il marito era un campione di tango; la pigrizia le è costata un’amante tanghèra per il marito tanghèro. Lui l’amava tanto nonostante avesse un’altra, ma si era arreso alla durezza di zia Bice, al suo rossetto che non pennellava per lui, ai ricci che non pettinava più per lui; una volta mi disse che avrebbe dato tutto per riavere l’amore di sua moglie, io non ho capito, ero piccolo, ma ricordo che era una brava persona. Io non amavo leggere le riviste, ma passavo il tempo ad osservare le persone coraggiose, che per acquistare un giornale, sfidavano il calore assordante del primo pomeriggio d’estate. In tutto questo calore c’era un ragazzo giovane, ma quasi pelato, un lavorante del mercato coperto della frutta e della verdura, con uno sguardo rassegnato da una vita preordinata, che ci portava con regolarità bottiglie verdi di acqua fresca, acqua della fontanella nel giardinetto. Berla era una gioia tale che il caldo diventava meno assillante solo all’idea che sarebbe arrivata la prossima bottiglia.
– ciao Giuvan, at ringrasi per l’acqua, ti propri un brev ragaz – in dialetto l’intimità era regina dell’incontro; scorrevano mondi dietro quelle parole che mia zia ripeteva ad ogni bottiglia, monotona come il caldo di Carpi. Quel giardinetto ombroso con la fontana al centro era diventato un luogo magico per me, l’oasi da raggiungere ad ogni costo, per l’acqua e per Giovanni che era il mio idolo, forse banale, ma forte e capace di quegli abbracci che mio padre non ha saputo darmi – mi voleva chiamare Francesco in ricordo del fratello morto, mia madre non volle, ma per lui sono lo stesso Francesco. A metà pomeriggio Giovanni sparisce, il caldo no e quindi decidiamo che io andrò alla fontana, zia Bice non può lasciare l’edicola; questo incarico mi riempie di ansia e di attese
– zia, ma sarò in grado di portare la bottiglia, di riempirla?-
– ma si caro e se non riesci chiama Giovanni che sta pulendo la verdura per domani- Afferro la bottiglia di vetro verde ed esco, cammino lento, ma poi il sole a picco mi spinge ad accelerare, a correre su quel selciato sconnesso e pieno di sassi sporgenti. La punta del sandalino di cotone blu e bianco si infila sotto un sasso e io cado in avanti, la bottiglia si frantuma con grande rumore, alcuni cocci si conficcano nel mio braccio destro e nel piede sinistro. Mi guardo piangendo, il fiume di sangue che scorre è l’unica immagine che ho ancora scolpita in mente. Sento ancora il calore del sangue sul braccio, i peli del corpo che si rizzano e il silenzio innaturale che dura un tempo imprecisabile. Poi arriva Giovanni correndo e mi sento subito meno in pericolo, arriva la zia e penso ai ladri in edicola; sono tutti sconvolti e atterriti più di me, la zia mi guarda e ritorna all’edicola per due motivi, difenderla dai ladri e telefonare a mia madre. Lei arriva in tutta fretta e con il suo fare direttivo capisce al volo che non morirò a nove anni. Con l’auto di Giovanni mi portano al pronto soccorso.
– ma giovan, at iva dit ed guarderel bein, so zia la peinsa sol a leser dal stupidedi, non è buona nemmeno di tenersi il marito – scandisce di colpo in italiano
– ma a l’ho guardè, ma a dev anc lavurer, me –
adesso tacciono, siamo in sala d’attesa, io bendato con fazzoletti bianchi da naso. Esce il medico, mi prende per mano e mi porta nel fresco ambulatorio, mi mette due punti nel braccio e uno nel piede. Ritorniamo all’edicola dove l’apprensiva zia si calma e tutti mi guardano con amore rinnovato e ritrovato, divento per tutti l’eroe guarito e sono quasi felice delle ferite, amo ancora profondamente quel momento che era vera felicità. Ma un dubbio poi mi prende, un dubbio per il quale attendo ancora una risposta
– come mai uno che fallisce viene amato e coccolato lo stesso? – ho rotto la bottiglia verde ancora vuota e mia madre mi ama lo stesso? Non ho portato l’acqua fresca alla zia e lai mi ama lo stesso? Ho impedito a Giovanni di lavorare e lui mi ama lo stesso? Difficile capire le cose vere della vita? No, è facile capire che questi abbracci rassicuranti a mio padre sono stati negati e lui non si è più sentito amato dopo “l’errore Francesco”; sua madre fredda, distaccata, lavoratrice, ma stanca non lo ha mai abbracciato, suo padre ha cominciato a guardarlo con occhi diversi, poi è morto dormendo in pochi mesi. Mia nonna ha vissuto di rimpianti, di dolorosi ricordi e questo ha distrutto la vita ai superstiti; non aveva tempo di trasmettere amore, di abbracciare i suoi figli; era rimasta immobile nell’abbraccio a Francesco nella bara – un breve addio, veloce e concreto, come sono le persone dalle mie parti.
Così ripenso alla tristezza del rientro dal mare che agevola i miei pensieri più neri. Rifletto mentre scorrono i cartelli delle uscite, Rimini nord, Cesena e di colpo immagino Forlì, poi Faenza e ti penso caro Pierluigi, morto a Brisighella e sepolto a Faenza; scappato da bologna, nuova vita a Brisighella, tomba definitiva a Faenza e di nuovo quel filo che si snoda, quel dolore che non senti, ma che provi di colpo, tre giorni prima di morire. Non sono mai entrato nel tuo cimitero, ma ti penso spesso; immagino una lapide elegante, liscia, bianca, forse senza foto o con una piuttosto datata da dolce narciso quale eri, del resto alla fine eri molto rovinato dal virus che perdona a fatica. Hai lasciato come eredità la mia esclusione dal tuo funerale e dalla tua morte come io ti avevo improvvisamente escluso dalla mia vita. Dopo l’iniziale stupore ho provato una sensazione di adulazione vergognosa; mi hai talmente amato da pensare a me anche in fin di vita? Hai voluto mandarmi un messaggio ferale, hai voluto punirmi proteggendomi? Certo che quella casa avremmo dovuto dividerla, durante i sopralluoghi e prendendo le misure, vedevo la mia vita con te fra gli ulivi e le colline ravennate, ma poi, come tutto e sempre nella mia vita, è cambiato il mood, repentino, irrefrenabile, decisivo, impellente, obbligatorio. L’interesse per il tuo mondo è svanito e la vita divisa ci ha presi; tutto ti è stato chiaro quando mi sono presentato alla cena inaugurale della casa della collina con Antonio, (che tu appellavi in modo sprezzante……l’infermiere) e Susanna, nuovo boyfriend e vecchia amica comune, la vita che continua senza te, ma nuova ed esploosiva per me. In casa di Susanna mi hai visto la prima volta, dalla finestra della sua cucina, tu mi hai fissato e io ho capito che ti avrei visto poco dopo in giardino e che ti avrei colto subito, eri maturo. Ricordo il calore del tuo corpo la notte, dalla tua finestra vedevo la cucina di Susanna, il giardino comune foresta delle vergine suicide, ordinato, senza pathos, regolare, tu Pierlu! Poi mi presentasti un ragazzo dai capelli rossi, il mio tragico surrogato, ma quel lampo triste e rassegnato nei tuoi occhi, che ancora ricordo perfettamente, suggellò il tuo eterno non perdono; non ci feci caso da cicala quale ero, per poi realizzare che tu hai sempre amato l’idea che avevi di me, come un nostalgico bolscevico. Poi invece di arrenderti ai fatti, li hai ritinteggiandoli con un irritante dejavù. Pierlu perdonami. Sai che mentre scrivo ho le lacrime che mi gonfiano l’occhio sinistro, che piange sempre per primo: è il convitato di pietra delle adunate dolorose. L’occhio destro è più ubbidiente, non trema e piange a comando, quello sinistro trema incontrollato, lo odio perché rivela umanità, mi fa sentire uguale agli altri, anche nel dolore? Mia nonna mi augurava sempre la “bellezza” delle brutte perchè, sapendo di avere poche chanches, si fermano al primo fiore che le accoglie, le belle volano di fiore in fiore, vanesie e narcisiste, senza capire che il fiore giusto esiste, dedico a te questa frase perchè tu sei stato un fiore giusto, sei sempre nel mio cuore.
Mi si dice di raccontare la mia vergogna, di aprirmi per fare uscire il dolore perché solo questa è la scrittura seria, quella vera, quella premiata. Sentire queste affermazioni mi consola, mi fa essere certo che la vita va semplificata, va sfoltita, va pulita dai troppi rami sovrastrutturali, va resa lineare, senza aspettative e senza pianificazioni, senza prospettiva. Va mondata dalle etichette troppo semplici da applicare e troppo vuote di senso perché ideate da altri che cercano di appiattirmi nei loro giochi soffocanti. Un cambiamento così importante va iniziato e pianificato lentamente, quindi inizierò a vivere mese per mese, poi semestre per semestre; del resto fino a poco tempo fa pianificavo l’età pensionabile senza capire che tutto il tolto oggi non sarà automaticamente vivibile domani, quindi vivo male da oggi e per sempre = una vera botta di vita!
È alla luce di questa visione che sto rianalizzando alcuni percorsi e alcune scelte passate per capire se sono state più o meno aderenti al filo della vita, per capire se ho mantenuto teso quel filo o se ho cercato di ondularlo, magari a fronte di situazioni dolorose o divertenti. L’ho teso per accorciare le distanze nel dolore e l’ho allentato per aumentare la durata della gioia? Sarebbe solo un’applicazione della fisica o della geometria, a filo teso si accorciano i tempi di percorrenza. Banale , ma vero; le circonvoluzioni e le sovrastrutture ci allontanano dalle mete.
Ho accumulato fiele, invidia, delusione quando non ho raggiunto obiettivi vacui, ho soffocato la felicità per la stessa ragione; oggi voglio rivedere i miei passaggi e illuminarli, voglio guardarmi indietro con gioia avendo capito che solo una vita illuminata ha valore per me.
Quando mi parlano penso al racconto successivo, alla fine, alla soluzione, al risultato senza ascoltare lo snodarsi degli eventi, ascolto solo le mie idee, spesso a sproposito e fuori tema; alla fine capisco tutto quello che voglio io, quello che dicono gli altri non importa, non importa. Ho vissuto così senza importanza, senza dare e ricevere importanza, senza capire chi avevo di fronte e senza capire chi ero io di fronte. Una vita facile questa che mi presenta il conto all’improvviso, senza preavviso, spesso senza dolore, ma con una riflessione tagliente e senza una cura rintracciabile; spesso è un veleno lento tipo quello del fungo chiamato “angelo della morte”, dolore poi ripresa illusoria, stai meglio solo tre giorni prima di morire soffocato.
Sicuramente non è semplice né facile. Si tratta di coniugare fortuna e capacità di sentirla, capirla e sfruttarla. Un evento fortunoso che si mischia con uno fortuito e quindi il massimo dell’imprescindibile, il massimo del divino intrigo che ci cade o non cade addosso, predestinazione o karma? La cosa che conta è nascerci avendola o no, svilupparla non si può né si deve provare a fingere, non serve.
Fortuna di avere la luce e capacità di capirlo non sono variabili connesse né reciprocamente propedeutiche, spesso si coglie prima l’alone e poi la luce, a volte l’alone senza capire che deve per forza arrivare da una sorgente luminosa. Molte persone muoiono senza capire e tanti altri ne sono proprio sprovvisti.
L’alone può anche rappresentare il peggior tipo di luce, quella riflessa che è solo un banale ripetitore di capacità che non abbiamo, capacità altrui, idee altrui che rendono il mondo piccolo e banale proprio come è adesso.
Coloro che scoprono la luxmundi spesso hanno la capacità di sostenerla e divulgarla, ma anche di tenerla nascosta perché un gioiello solo loro, una lente privilegiata che li ripara dalla banalità, che gli fa vedere aspetti della vita e delle cose sconosciute ai più.
Molte persone celebrano spesso un’emanazione impropria di luce, un alone particolare, ma dobbiamo porre attenzione al pulpito dal quale viene la luce predicata; spesso si tratta di persone sprovviste di luce e quindi trattasi solamente di una altrui banalizzazione, di mantenere basso il livello della discussione e degli atteggiamenti; si tratta di vacuità analitica, di inesistente capacità di sintesi o spesso di semplice incapacità sintattica.
Quindi anche l’ignoranza entra in gioco, come pure la capacità di discutere e “auto discutersi”; anche la voglia di cultura e di culturizzazione aiuta a capire certe sfumature di luce, anche tenui, ma patognomoniche della luxmundi.
I percorsi sono molteplici e molto personali, ma non personalizzabili; esiste un DNA luxmundi che come fenotipo ha la brillantezza, la personalità, la capacità di attrarre gli altri in positivo o in negativo; l’essere magnetici non è sinonimo di charme, di sex appeal: è un’altra cosa magica, indescrivibile, anche fastidiosa, ma sempre unica.
Anche i momenti del capire sono improvvisi, ma legati a sensazioni, luoghi positivi e piacevoli: nel giardino in primavera, solo per chi ama il giardinaggio e non odia gli insetti; in osteria, solo per chi ama il vino e la confusione; sul divano per chi ama il relax e la televisione.
In questi attimi di godimento ci si accorge che il benessere che ci invade va oltre il semplice momento di godimento, c’è qualcosa in più, qualcosa che ci fa sentire dei re, qualcosa che gli altri non possono né devono capire, la luxmundi, il brivido della luce propria.
A volte penso che tutta la vita sia un prologo e che il romanzo non inizi mai realmente, si immagina che gli eventi siano i capitoli di un romanzo, ma in verità la vita passa e noi veniamo trainati dagli eventi, senza mai guidarli, noi siamo il prologo.
Si dice che il lago di acqua dolce (pozza per lo più stagnante) sia, nei giochetti pseudo psichiatrici ( sicuramente per chi ci crede), la sessualità, noi stiamo cauti, abbiamo paura che l’acqua sia fredda, profonda, inospitale. Poi alcuni si tuffano, altri guardano, altri scappano, che la vita sia un po’ come il sesso? O come il lago?
Esiste un filo fisico tra inizio e fine della vita attorno al quale produciamo come bachi un filo che più o meno ingarbugliato, più o meno finalizzato, più o meno aderente, più o meno strutturato dipende dal nostro cervello. Maggiori saranno le circonvoluzioni maggiori saranno le sovrastrutture, minore luce entrerà nella vita e sempre più difficile sarà guardarla dal lato corretto e quindi illuminarla, fare luce. La metafora del fitto bosco che non lascia filtrare la luce mi ricorda il dedalo di sovrastrutture, desideri, pianificazioni che portano inevitabilmente al soffocamento delle nostre radici, del tronco educativo portante, delle foglie, comprese sovrastrutture e pianificazioni. A tratti apriamo delle finestre, piccole potature apicali che prolungano l’attesa e aumentano le sospensioni in desideri e pianificazioni. Mi si suggerisce spesso di avere spessore, di guardare le cose con il terzo occhio, ma credere di guardare col terzo occhio significa non avere spessore, significa entrare in un genere di visione che non voglio avere; voglio appartenere al non genere, categoria definibile, ma di per sé anarchica e quindi coerente con le mie rivisitazioni; non posso dirmi di avere vissuto fuori dagli schemi, ma proprio perché ho sempre provato senza riuscire ad appartenere ad uno schema devo accettare di esserne stato sempre e definitivamente fuori.
Avrei voluto scrivere gita al faro, ma non posseggo la sua potenza di scrittrice e vivo in un luogo senza mare, senza scogli pericolosi e quindi senza faro. Esistono fiumi dai larghi argini, fiumi sereni e tranquilli, pieni di acque scure e poco amichevoli; il fango dell’alveo rende i fiumi di pianura lenti e marroni di quella fanghiglia di fondo che rimuovono a fatica. Si creano gorghi e mulinelli segno di un fittizio vorticare che non porta da nessuna parte se non sempre qui, allo stesso punto di partenza, giri, giri e sei fermo. Anche i pesci hanno il sapore del fango, le chiuse profonde e pericolose raccolgono fango fra le grate; ti viene voglia di aprire un rubinetto potente che dilavi, col fango depositato sulle rive, le angosce degli sguardi senza futuro degli abitanti della valle. Lo sguardo che scruta questa immensa pianura interrotta solo da pioppi e olmi, non dà via di uscita, giri, giri e sei fermo. Qui si lavora pesante ogni giorno, domani uguale ad oggi, lavoro fatica, fatica illusione, illusione speranza di un buon raccolto senza grandine, senza malattie. Qui ogni nascita rappresenta una nuova forza lavoro e viene presa come un vero dono del cielo al quale sono demandate quasi tutte le speranze, dal buon tempo alla vita migliore possibile. Il senso di dignitosa predestinazione accompagna il quotidiano, se qualcuno muore era semplicemente la sua ora, se il granturco cresce alto è merito del buon Dio, se arriva la grandine vuole dire che doveva andare così, oggi si lotta con mille medicinali, con le reti antigrandine, con diserbanti e fertilizzanti si cerca di cambiare il destino, non lo si accetta per quello che deve essere e comunque sarà, oggi si vive male, i disturbi della personalità sono dilaganti perché meglio fingere che accettare è il diktat del nostro tempo
Io sono sospeso fra queste due culture e ho imparato ad accettare le cose belle senza gioirne e lamentarmi per le cose brutte nel vano tentativo di esorcizzarle, parlare di una bella giornata evoca la paura di averne una orrenda, parlare dell’amica col tumore ti suggerisce la vergogna dell’essere il fortunato di oggi, e domani ancora angoscia e finzione, più di prima, meglio di prima e senza te amica cara.
Attraverso un apparecchio senza presa e senza linea la tua voce mi arriva netta e lucida come non mai. Abbiamo sempre parlato molto al telefono perchè non guardarsi negli occhi aiuta la verità, aiuta a riflettere prima di rispondere, aiuta a cercare nel tono della voce una risposta delicata, senza doppi sensi, senza occhiate rivelatorie di antichi asti e invidie. Continuerò a parlarti attraverso telefoni spenti fin che vivrò, mi ascolterò raccontarti quello che sai già, sarò forse meno solo, meno triste, meno desolato. In fondo conosco le tue risposte, le tue paure, i tuoi alert , mentre mi snocciolo l’ oggi sento la risposta arrivare mista alla tua. Sarà avere un nuovo equilibrio e perderlo del tutto non so dirlo oggi e non mi interessa saperlo. sei nel mio cuore, sempre.